cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

13 giugno 2013

Architetture perdute, arredi ritrovati. La ricostruzione dei mobili dei maestri di Filippo Alison per Cassina

Un vecchio articolo scritto per Area per continuare a festeggiare il lavoro e l'opera di Filippo Alison.


“Architetture perdute”, ma come si fa a perdere un’architettura? Di certo un buon edificio non rimane per sbaglio nel fondo di un cassetto nascondendosi tutte le volte che serve. L’architettura ha una sua presenza, occupa uno spazio fisico per niente trascurabile. Perderla significa dire, con un eufemismo, che essa è andata irrimediabilmente distrutta. Normalmente nessuna architettura nasce per morire, per essere demolita. Se questo avviene è perché sono sopravvenute cause che ne hanno comportato la fine. A volte sono cause terribili, distruttive, eventi che nessuno vorrebbe mai che accadessero e che decretano la morte di cose, manufatti ma anche di uomini, di altri esseri viventi. Altre volte però non sono eventi imprevisti o non voluti, capita infatti che in alcuni casi proprio coloro che, fino ad allora, hanno vissuto e utilizzato quella data architettura decidono che essa non ha più diritto a partecipare alla vita quotidiana. Alcune architetture divengono obsolete, appartengono a modi di essere ormai inutili, a funzioni superate, altre invece perdono il loro valore simbolico e rappresentativo e, non potendo rivestire altro ruolo, vanno tristemente in disuso fino ad essere cancellate. Le architetture quindi non si perdono all’improvviso, anzi la loro scomparsa è spesso lunga, complessa e, soprattutto, dolorosa in quanto il principio della stabilità, della continuità è in loro insita. Si dice infatti che l’architettura è durevole, che i suoi valori sono persistenti e pertanto la fine di tali principi o di tali caratteristiche fisiche e tecniche contraddice sempre la volontà di chi l’ha pensata e costruita. Al contrario, tutto ciò che appartiene alla sfera delle attrezzature della vita quotidiana, quei manufatti e utensili che consentono l’espletarsi delle funzioni all’interno degli spazi dell’architettura, nascono naturalmente con un’attitudine, nei confronti del tempo e del gusto, totalmente diversa. Gli arredi, le attrezzature, i complementi di arredo appartengono comunemente alla sfera del mutevole, del transitorio. Rispetto alla stabilità dell’involucro architettonico che tende a rappresentare l’idea che l’uomo ha del proprio habitat in quel tempo e in quel luogo, le strutture arredative sono invece consapevoli di dovere seguire l’uomo nelle sue diverse e mutevoli aspettative del quotidiano, di assecondare esigenze d’uso e di contenuti di breve durata. Gli oggetti di arredo si confrontano con la moda, con il gusto, con l’effimero ed il transitorio.
Eppure, rispetto a queste affermazioni, che sono in linea di principio corrette e condivisibili, può accadere che, alla prova del giudizio del tempo, accada esattamente il contrario. Architetture troppo radicate al proprio tempo per soluzioni estetiche e tecnologiche risultano dopo poco del tutto inutilizzabili e soprattutto non più capaci di rappresentare ed esprimere la vita dell’uomo, al contrario semplici oggetti, piccoli manufatti, in quanto forma costruita di un modo di vivere ed essere, diventano icone senza tempo, modelli non databili, espressioni fedeli delle abitudini e della volontà di rappresentarsi di una determinata società. Può verificarsi cioè che, a volte, alcuni oggetti - una sedia, una poltrona, un tipo di libreria - ci seguano fedelmente in tutto l’arco della nostra vita, addirittura tramandandosi di generazione in generazione, simbolo non di un tempo o di una moda ma di un modo di essere e di vivere. Espressione di tradizioni consolidate, forma simbolica della funzione che intendono soddisfare. Spesso ciò avviene spontaneamente, senza volontà progettuale. Altre volte invece questa diviene l’operazione sensibile di un progettista che sceglie di riscattare dall’oblio alcuni prodotti dell’ingegno umano e di riproporli, nella loro originaria essenza, ma con i dovuti adeguamenti tecnologici, in un tempo diverso da quello per cui sono stati pensati e realizzati la prima volta. Filippo Alison 1 è certamente l’artefice più rappresentativo di questo tipo di operazione 2 nel campo del disegno del prodotto di arredo. La sua ricerca sui mobili dei maestri del moderno 3, sfociata nella lunga e proficua collaborazione di produzione con la firma Cassina, ha restituito all’oggi elementi di arredo pensati per un tempo distante ma che trovano invece nella nostra contemporaneità la piena affermazione del portato simbolico, rappresentativo e culturale che forse, a suo tempo, non sono stati in grado di comunicare appieno 4. La ricerca condotta da Filippo Alison sui mobili dei maestri ha sempre comportato lo studio dell’intero repertorio di oggetti di cui è stato possibile rinvenire esemplari originali, disegni esecutivi o anche solo schizzi, tra questi solo una parte è divenuta oggetto di ricostruzione di prototipi e, successivamente, tra tutti gli arredi giunti fino alla definizione del modello al vero, solo pochi e selezionati esemplari, scelti accuratamente, sono arrivati alla produzione in serie. Quelli riproposti sul mercato sono a volte arredi che già a suo tempo avevano avuto ampio successo, più spesso invece sono oggetti così rivoluzionari per l’epoca in cui erano stati proposti che finalmente riescono a trovare piena affermazione delle loro potenzialità tecnologiche, evocative e funzionali sono in un tempo e in una società profondamente cambiata. Pezzi di arredo di cui solo oggi è possibile apprezzarne il contenuto senza privarsi, nel contempo, del piacere di una forma che viene da lontano, da dentro di noi tutti 5. Oggi, sedie, mobili che protagonisti dei nostri spazi fanno riflettere, con la loro presenza quotidiana: a fronte delle architetture per cui erano state pensate che oggi non esistono più, di come a volte la stabilità e la resistenza di principi nati per essere durevoli risulti eccessivamente fragile di fronte al mutare veloce e impetuoso della cultura, mentre invece, la debole presenza di oggetti, nati per essere precari e momentanei, possa attraversare il tempo grazie alla vicinanza dei loro contenuti, non agli aspetti più superficiali dell’uomo, ma proprio in quanto rappresentazione fisica del suo essere nel mondo giorno dopo giorno 6.


1 Filippo Alison, (1930) architetto, titolare della cattedra di Arredamento presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
2 Tra le numerose pubblicazioni di Filippo Alison a proposito di tale argomento cfr. F. Alison, Frank Lloyd Wright designer of furniture, Napoli 1997.
3 Alison ha prodotto per Cassina i mobili di F. Ll. Wright, Le Corbusier, C. R. Mackintosh, E. G. Asplund, G. Rietveld.
4 “[…] i valori storici dei pezzi di arredo devono essere acquisiti e goduti soltanto attraverso l’uso effettivo di essi, ritenuti efficaci portatori e diffusori di tali valori in quanto oggetti di quotidiana utilità.”
F. Alison, Frank Lloyd Wright…op. cit., p. 91.
5 “Nel nostro caso l’oggetto prescelto per il presente è propriamente un “archetipo”, cioè modello disegnato per tempo e spazio differenti dal nostro, purchè rechi con tutta certezza quei predicati formali e decorativi capaci di segnalare i dati significativi della temperie culturale cui appartengono.”
F. Alison, Frank Lloyd Wright…op. cit., p. 91.
6 “Resta ora qualche considerazione sulla valutazione di questi oggetti, che certo non sono semplici copie e neppure possono considerarsi originali nell’accezione tradizionale del vocabolo. A questo punto conviene considerare che un oggetto, di per se stesso, senza relazioni con il suo tempo e con il suo spazio, difficilmente può essere identificato. Se quindi si ammette che ogni oggetto ha un determinato significato solo al cospetto di un contesto proprio, temporale e spaziale, si deve concludere che cambiando il contesto cambia anche l’identità dell’oggetto. E così, quando si trasferisce un oggetto da un contesto storico ad un altro, cioè se cambia contesto, per forza di cose cambia anche il suo significato e quindi ci troviamo – anche per quello originario – di fronte ad un altro oggetto. Dunque se si desidera trasferire i valori propri di un oggetto piuttosto che l’oggetto stesso, usando quest’ultimo come veicolo di trasferimento, è molto probabile che, allo scopo di essere identico all’originale, l’oggetto in questione deve risultare diverso.
F. Alison, Frank Lloyd Wright…op. cit., p. 93.

Sverre Fehn: Padiglione dei Paesi Nordici, Venezia, Italia progetto di concorso, primo premio, 1958 - 1962

Visti gli ultimi accadimenti mi piace pubblicare sul blog una descrizione, asciutta e sintetica, elaborata un po' di anni fa (come voce di un dizionario di architettura) del padiglione di Sverre Fehn.
PG


Il lotto assegnato per l'edificazione del padiglione destinato ad accogliere le opere d'arte provenienti dalla Finlandia, dalla Norvegia e dalla Svezia, si trova in prossimità dell'ingresso principale dei Giardini della Biennale, tra il padiglione americano e quello danese a ridosso di un salto di quota del terreno. Fehn risolve il problema della compresenza di opere provenienti da tre diversi paesi attraverso un tema unificante: la proposizione di una condizione luminosa - la luce nordica - che ricostruisca l'atmosfera in cui quelle stesse opere erano state create e da cui, in ultima analisi, erano state influenzate.
L'idea si concretizza attraverso una particolare soluzione della copertura posta a protezione del semplice impianto, di forma rettangolare, basato su di una griglia quadrata di 3,66 metri di lato e che si presenta come un unico ampio spazio coperto, di 446 mq di superfice, completamente liberato al suo interno da qualsiasi elemento strutturale verticale. La copertura è pertanto calibrata sull'effetto finale della luce filtrata che il progettista intende ottenere: è costituita da un doppio ordine di travi sovrapposte in calcestruzzo a vista, dello spessore di soli 6 centimetri, con un'altezza pari ad 1 metro e poste ad un interasse di 523 centimetri l'una dall'altra. Le travi principali corrono libere da un capo all'altro dello spazio e poggiano su un muro di contenimento a Nord e su un'enorme trave binata in calcestruzzo di 2,10 metri di altezza a Sud. La fitta trama dell'orditura secondaria invece è poggiata direttamente su quella principale e, grazie alla sua notevole altezza e al passo breve dei singoli elementi strutturali, impedisce ai raggi solari della laguna veneta - anche durante il solstizio estivo, ossia quando i raggi formano un angolo di 64° con la superficie terrestre - di penetrare in maniera diretta nello spazio sottostante, garantendo un'illuminazione uniforme e priva di ombre sulle opere esposte. Alla fine, nello spazio interno, prevale l'effetto luminoso rispetto alla fisicità della struttura riuscendo a riproporre l'atmosfera del plumbeo cielo nordico. Solo dei semplici fogli in fibra di vetro sono adagiati sugli estradossi dell'orditura superiore ad impedire alla pioggia, che viene convogliata verso i margini, di penetrare nell'edificio senza ulteriormente complicare il sistema della copertura.
Non esistono quindi strutture verticali all'interno del padiglione che possano interferire con la suggestione predisposta dall'architetto a conferma che proprio nel rapporto dialettico tra terra e cielo, ovvero tra lo spazio, i suoi margini ed il tetto, si possono rintracciare limiti sensibili entro i quali l'uomo sceglie di svolgere e rappresentare le proprie azioni, dando forma e carattere ai luoghi in cui vive. L'unico pilastro esistente è posto all'esterno, lì dove si incontrano i due lati vetrati del padiglione. Questa poderosa struttura sostiene la coppia di lunghe ed alte travi del fronte Sud che si aprono a 45° in prossimità di un albero preesistente, accogliendolo al loro interno e simulando esse stesse una sorta di natura pietrificata.
La superficie espositiva, caratterizzata dalla fitta orditura del frangisole di copertura, risulta chiusa solo su due dei quattro lati del rettangolo di pianta: a Nord un muro contiene il terreno della piccola collina adiacente e ad Est un secondo muro segna la separazione dal padiglione degli USA. Gli altri due lati invece sono completamente liberi e presentano delle ampie pannellature vetrate scorrevoli che permettono alla natura del giardino di entrare a far parte dello spazio espositivo, nel premeditato tentativo di ricostruire quell'unità del contesto esistente prima dell'intervento dell'uomo. Non a caso Fehn conserva all'interno del padiglione alcuni alberi già presenti sul lotto i quali attraversano la copertura, interrompendola, alla ricerca della luce. Gli alberi, cioè la presenza viva della natura, restano gli unici elementi in grado di dialogare con le opere d'arte esposte a testimonianza del tributo che quest'ultime devono ad essa secondo un processo tipico dell'arte nordica.
Uno spazio di deposito è realizzato sotto la scala esterna, posizionata lungo il fronte Est, che conduce ad una terrazza superiore prevista per accogliere le esposizioni all'aperto.


11 giugno 2013

and the tree is gone....





...tristemente mi comunica Gennaro Postiglione che l'albero, incluso nelle strutture del padiglione dei Paesi Scandinavi alla Biennale di Venezia di Sverre Fehn, non c'è più.
Proprio la presenza dell'albero aveva dettato la forma del pilastro d'angolo e le travi avevano lasciato il posto al tronco... ed ora senza alcuna sensibilità nè comprensione delle ragioni progettuali... l'albero non c'è più.