cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

17 febbraio 2012

Costruire con la luce. (Versione II)

Ho notato, seguendo il blog, che "Costruire con la luce" è uno dei saggi più letti. Quello che ho pubblicato anni fa è una versione ridotta ai soli contenuti, epurata da esempi e da riferimenti. Per tutti coloro che lo hanno ritenuto interessante, pubblico una versione più completa affinchè sia più comprensibile dove tale stratagemma critico voleva portare.
PG



PREMESSA
Una particolarità dell'opera di Fehn

E' sufficiente scorrere l'elenco delle opere realizzate da Sverre Fehn per accorgersi della particolarità che, al di fuori di rare eccezioni, l'architetto norvegese ha lavorato esclusivamente su due funzioni specifiche: quella residenziale, ed in particolar modo sulla casa unifamiliare isolata, e quella espositiva, comprendente padiglioni, musei e allestimenti.
E' difficile immaginare che, almeno all'inizio, ci sia stata da parte di Fehn una selezione cosciente tra gli incarichi o i concorsi, come dimostrano alcune opere realizzate (la Skadalen School o la Casa per Anziani ad Okern) e recenti partecipazioni a concorsi internazionali (l'Opera di Parigi e il nuovo Palazzo del Cinema al Lido di Venezia), eppure nel tempo lo stesso architetto deve essersi reso conto di questa curiosa situazione tanto da dedicare spesso alcune brevi considerazioni per meglio chiarire, e chiarirsi, il senso di queste due funzioni così diverse tra loro ma soprattutto così lontane nel rapporto che instaurano con l'uomo.
Fedele al suo stile narrativo, asciutto, stringato quasi didascalico, Fehn ha così descritto, con poche ma chiare pennellate sfumate, la differenza che intercorre tra la casa dell'uomo ed il luogo in cui egli conserva i frammenti del suo passato: un museo è la danza delle cose morte in cui il manufatto e le sue relazioni con il movimento umano è ciò che è importante, all'opposto dell'architettura in cui l'aspetto umano gioca la sua parte principale ed il manufatto è secondario.
Questa veloce affermazione, insieme ad altre piccole testimonianze lasciate da Fehn sull'argomento, introduce ad una particolare concezione del maestro norvegese che vede nel compito dell'architetto quello di costruire - materializzare - i bisogni e le aspirazioni dell'uomo, affermando sempre una prevalenza dell'aspetto umano sulla costruzione, affinché questa sia a servizio del fruitore senza mai prevaricarlo.
Eppure, come da lui stesso dichiarato, il museo, misterioso forziere in cui l'uomo accumula le tracce del suo passaggio in questo mondo, ribalta questo rapporto, è il manufatto che prende il visitatore per mano e lo accompagna lungo percorsi predefiniti che sono essi stessi strutturati in modo tale da essere significanti del contenuto celato nel museo. Non si tratta quindi di meri contenitori delle memorie, bacheche a scomparti ordinati, ma di luoghi rappresentativi che mettono in scena la storia dell'uomo.
Egli critica aspramente la smania di accumulare indistintamente oggetti del proprio passato che riconosce nella società contemporanea: la religione dei nostri giorni è il rifiuto della morte. Così anche agli oggetti non è permesso morire e sono conservati. Le rovine non dovrebbero cadere più ma dovrebbe essere conservato il loro stato attuale fino alla fine del mondo. Se si va in un museo oggi si vedono oggetti di ferro coperti, ogni minuscolo oggetto di legno protetto, si spende una gran quantità di denaro in sistemi di ventilazione per garantire una migliore conservazione. Niente dovrebbe cadere a pezzi o morire. In passato gli uomini costruivano grandi spazi intorno al Cristo crocifisso. Oggi quello spazio è stato occupato dagli oggetti il cui valore cresce a dismisura.
Contro questo atteggiamento egli ricorda che non è l'oggetto in se' ad avere valore, ma che esso conta per il portato della sua personale storia che può evocare e soprattutto della storia di coloro che l'hanno "incontrato". Per cui giunge a proporre, tra le altre cose, di conservare e proteggere il reperto nel luogo stesso del suo ritrovamento affinché non siano cancellate le memorie collettive che si ispirano ad esso.
Ne consegue che se le opere a carattere residenziale di Fehn si collocano nella scia della grande tradizione del domestico dell'architettura norvegese (non è da poco l'affermazione della priorità del rapporto dell'uomo rispetto al manufatto architettonico se si pensa a quanta architettura invivibile viene esaltata oggi dalla critica corrente), quelle studiate per le esposizioni temporanee o per ospitare raccolte di oggetti storici rappresentano un contributo originale del pensiero del maestro nordico all'architettura del nostro secolo.

UN SISTEMA DI RIFERIMENTO
Una "originale" chiave di lettura per i musei di Fehn

Per comprendere il significato del lavoro svolto da un architetto la critica storica cerca modelli formali o comportamentali di riferimento con cui confrontarlo ovvero ne suggerisce l'appartenenza ad ambiti culturali, perfettamente classificati nel tempo e nei luoghi, salvo poi operare le opportune distinzioni per svelarne a fondo le peculiarità. Parallelamente il mondo degli architetti operanti sovente si è soffermato a riflettere sul rapporto tra teoria e prassi confidando nella teoria come ulteriore materiale del progetto.
Lungi dal proporre un'ulteriore teoria dell'architettura, si è però convinti dell'utilità di un modello teorico a cui affidarsi per poter leggere e comprendere l'architettura. Modelli non universali, ma neanche esclusivamente relativi ad un caso specifico, che possono, anche provocatoriamente, tagliare da un punto di vista privilegiato la lettura di un'opera dandone una, anche se parziale, innovativa visione.
E' sembrato utile un tale atteggiamento nei confronti dei musei di Sverre Fehn proprio per la distanza, soprattutto culturale, che divide il mondo dell'area mediterranea da quello nordico dell'architetto. Non a caso, proprio uno dei più grandi storici e attenti osservatori dell'architettura della Norvegia, C. Norberg - Schulz, ha più volte usato il confronto diretto tra la cultura mediterranea, del Sud, e quella dei paesi Scandinavi, del Nord, per chiarire alcuni aspetti dell'architettura norvegese. Usando infatti al negativo, o se vogliamo come contrappunto, schemi consolidati in grado di esprimere la millenaria tradizione costruttiva del mezzogiorno d'Europa, egli è riuscito a disegnare un profilo chiaro ed inedito del suo paese d'origine.
Sarà del tutto casuale ma è certamente originale che la chiave di lettura che si riterrà utile per un'originale rilettura del senso dell'opera di Fehn, per avvicinarsi alla cultura nordica in contrapposizione a quella mediterranea, finisca poi per essere rappresentata da un sistema logico tipicamente meridionale, o almeno peculiare dei paesi assolati.

Si proceda all'inverso e si cerchi un modello che incarni il senso dell'architettura mediterranea. Immediatamente, mettendosi le spalle al sicuro, torna alla mente la querelle sul principio dell'architettura che, pur tra numerose linee di pensiero contrapposte, ha visto ben delinearsi nei secoli quella che partendo dalla costruzione primordiale lignea descritta da Vitruvio si può far giungere, per contrappunto, fino alla capanna di G. Semper. Quella cioè che al di là delle opportune revisioni dovute, come afferma V. Gregotti, incarna l'idea di trasformazione del materiale per mezzo della tecnica e che nel contempo si fa simbolo di uno degli atti primari dell'architettura, l'idea stessa di recingere e delimitare, al pari del coprire, del ripararsi e del sottrarsi alle acque con un terrapieno sormontato dal focolare.
La capanna infatti rappresenta appieno un fare costruttivo legato ad una tecnologia tradizionale, al fine di recuperare spazi alla natura separandoli da essa e proteggendoli dagli agenti atmosferici. Ed in particolare, non è nel materiale della capanna, ma è proprio nel senso della costruzione tettonica rigorosamente verificata, che l'architettura mediterranea si identifica (paradossalmente il materiale, il legno, evoca specificità del mondo nordico).
In quella tradizione costruttiva cioè che utilizza materiali presi alla natura che si dispongono secondo il loro reale comportamento fisico. In particolare l'uso della pietra che, spostandosi dall'architettura delle origini, rappresenta tutta la sapienza tettonica della classicità, esprime appieno quel senso di stratificazione successiva, che assecondando le leggi di natura, procede dal basso verso l'alto dai materiali più pesanti a quelli più discreti, per alleggerimenti successivi. La costruzione avviene attraverso le masse murarie che consentono aperture relative e che quindi ispirano quel senso di chiuso e di forte privatizzazione del suo spazio interno. Paradossalmente, proprio a queste latitudini dove la natura è benevola dal punto di vista del clima, si stabilizza un fare architettonico fortemente condizionato dalla tecnologia del materiale lapideo la cui conseguenza diretta è la perimetrazione di un ambito attraverso pesanti murature le quali, giustificate solo in parte dalla necessità di proteggersi dal sole e dal caldo, condizionano, dal punto di vista della psicologia dello spazio, il senso dell'abitare.
Il carattere introverso della casa non a caso accomuna molte culture del bacino dal mediterraneo, da quelle islamiche ed arabe a quelle così chiaramente rappresentate dalla casa a corte romana.
Così quindi, senza dilungarsi ulteriormente, lo schema ideale di riferimento di un certo tipo di architettura del sud europeo si può proprio ritrovare in quell'archetipo, reale, ma soprattutto ideologico, del megaron, cioè di uno spazio chiuso espresso dalla massa della sua struttura e dei materiali di cui è composta.

Rispetto a questa chiave di lettura le opere museali di Fehn, pur riuscendo ad esprimere la profonda conoscenza tettonica e costruttiva dell'architetto, non sono in grado di svelare le loro più profonde caratteristiche. A detta di molti critici infatti, Sverre Fehn, analogamente al suo diretto maestro Arne Korsmo, non concepisce l'architettura solo come mera costruzione e soddisfacimento dei bisogni rappresentati dalla funzione, bensì egli punta ad una espressività del manufatto architettonico che sia significante dei suoi contenuti. Che cioè, con discrezione, si direbbe poeticamente, rappresenta la risposta dell'uomo alla natura.
Partendo così, proprio per confronto diretto, da quella capanna primordiale, e per aggiunte e sottrazioni successive si è giunti ad un nuovo schema mentale. Per quanto possa sembrare poco "serio" ci si è affidati al sistema logico rappresentato dall'ombrellone.
L'ombrellone infatti rispetto alla più "nobile" capanna, non ha pareti o pavimento, non racchiude cioè alcuno spazio, anzi il solo sostegno centrale, pur essendo l'unica struttura effettivamente portante, risulta essere talmente esile come presenza fisica rispetto alla ben più visibile copertura (articolata nella sua duplice struttura portante e portata) da essere percettivamente trascurabile.
Ma, quel che più conta, ed è la funzione stessa per cui è concepito, esso disegna a terra un'ombra che, sebbene non sia mai stabile (si sposta con il trascorrere delle ore e "scompare", per così dire, al primo nuvolone), definisce ugualmente con grande forza una inconfutabile area di pertinenza della struttura; come scrive Bachelard il tetto dichiara immediatamente la propria ragion d'essere: esso mette al coperto l'uomo che teme la pioggia ed il sole.
Anzi, spingendosi oltre, è possibile affermare che, riferendosi al comportamento spontaneo di suoi eventuali fruitori, l'ombra proiettata a terra, il cui disegno, è lapalissiano, vive della geometria e dei rapporti di altezza dal suolo della copertura dell'ombrellone, costituisce con questa un sistema che delimita un confine, non solo ideale, ma fisico e reale, in uno spazio prima indifferenziato e in cui ora è invece possibile riconoscere una parte privatizzata da una di dominio pubblico. Per cui, anche in assenza di pareti reali, si può arrivare a dire che la presenza della sola ombra, sormontata dalla sua "cupola", definisce un nuovo, seppur labile, spazio, punto di riferimento e aggregazione. Non esiste intimità vera che respinga: tutti gli spazi di intimità vengono designati dall'attrazione per cui questo spazio delimitato dall'ombra, al quale è possibile riconoscere un grado di "intimità", è assimilabile ad un vero e proprio interno.
L'analisi funzionale - l'accumulo delle masserizie, la disposizione delle sedie, la gerarchia degli spazi più interni (più sicuri di rimanere per più tempo in ombra) e quelli più marginali (più labili in quanto modificabili nel volgere di pochi minuti) - richiama infatti, nell'atteggiamento psicologico dei suoi fruitori, l'esistenza di modi di fare caratteristici di una spazialità privata propri di un interno, ritrovando nel cerchio di ombra proiettata sulla sabbia (si noti bene, e non direttamente "sotto l'ombrellone") un luogo sicuro e chiaramente distinto dal più incerto "altro" all'intorno.
Ne consegue che, a differenza delle analisi possibili su una qualsiasi capanna completa di pareti, questa struttura funziona esclusivamente in presenza della luce, grazie alla quale si delimita lo spazio identificato dall'ombra.
Il sistema luce - diaframma - ombra, in cui concettualmente l'esile sostegno verticale si può considerare solamente una variabile aggiunta, realizza così un luogo sfruttando esclusivamente le potenzialità psicologiche del rapporto che si instaura naturalmente tra il fruitore, l'ombra portata, il diaframma e la luce circostante, a sostegno del fatto che i valori di riparo sono talmente semplici, così profondamente radicati nell'inconscio, che li si ritrova piuttosto evocandoli che minuziosamente descrivendoli.
Inoltre, trascurando per un istante i sistemi più complessi nei quali vengono coinvolte anche le strutture che reggono fisicamente la copertura e che implicano, oltre la loro presenza fisica e materica, anche le ombre che esse a loro volta producono, si pensi alle infinite potenzialità espressive di tutte quelle semplici variabili elementari del nostro sistema teorico di riferimento.
Nuove configurazioni date, ad esempio, da interferenze o tagli realizzati nel diaframma, capaci di dividere in diversi ambiti l'ombra, oppure dal semplice accostamento di più coperture, affiancate le une alle altre ma inclinate in modo diverso rispetto i raggi del sole, potrebbero soddisfare anche funzioni più sofisticate di quella del semplice ombrellone da spiaggia, costruendo così ipotesi di spazi dell'architettura definiti, più che dall'involucro, direttamente dai propri contenuti.
Se è vero infatti che la separazione dell'interno dall'esterno rappresenta l'atto architettonico primario dobbiamo tuttavia ammettere che tale "atto" non debba necessariamente identificarsi con una architettura strutturata secondo stratificazioni successive storicamente e linguisticamente riconoscibili, ma che possa esprimersi anche nella semplice modificazione, o meglio manipolazione, dei fenomeni della natura, tutti, i più svariati, dei quali l'uomo è partecipe.
Ed è proprio partendo da un approfondimento del rapporto tra uomo e natura che si possono comprendere le principali differenze tra la cultura nordica e quella mediterranea. Il modello di riferimento che si è voluto rappresentare, con un po' di ironia, con l'ombrellone, cela infatti alle spalle una concezione precisa del senso e dell'importanza dell'ambiente che l'uomo modifica per costruire i suoi spazi. Concezione da cui deriva direttamente anche il modo di strutturare l'architettura.
Non si tratta infatti di una concezione "leggera" della costruzione rispetto ad una più invasiva, bensì di un rapporto di reciproco scambio di significati tra l'ambiente e le necessità dell'uomo rispetto una più definitiva modificazione rappresentata dalla recinzione e dalla perimetrazione. Parte della cultura norvegese infatti preferisce svelare, utilizzare i sensi già insiti nel luogo, integrandoli e specificandoli, più che imporre nuovi valori che siano altro rispetto al contesto. Così l'architettura classica ha ricercato molte più regole proprie, coerenti con i contenuti, anziché lavorare sull'espressività dei significati di volta in volta coniugati con i nuovi valori portati dalla natura.
Se basamenti, architravi e cornicioni identificano un certo fare architettonico, non come mera riproposizione linguistica degli ordini classici, ma come rispettosa successione degli elementi costruttivi tradizionali, altre culture invece, con altri mondi e altri dei alle spalle, hanno privilegiato la costruzione dello spazio interno, del rifugio strappato con grandi difficoltà ad una natura forte ed aspra. Gli involucri, semplici, essenziali e robusti rappresentano il necessario argine alle intemperie, sviluppando le tecnologie dei materiali a portata di mano. Il mutare delle esigenze e delle aspettative della società non intacca qui l'involucro esterno (non a caso la necessità di proteggersi e delimitare rimane immutata nel tempo) modifica e sviluppa invece il rapporto tra l'uomo, il suo ambiente costruito e le forze della natura circostante.
Questi modi di intendere il rapporto tra Uomo - Natura - Architettura non sono ovviamente esclusivi, anzi sono complementari, e non a caso lo stesso Fehn così definisce la sua poetica: nasce dall'incontro tra struttura ed i materiali. Credo che questo sia il processo da seguire, perso il quale nessuno è più in grado di comprenderti. Il nostro ruolo è estremamente delicato, noi modifichiamo, danneggiamo la natura nel momento stesso in cui camminiamo sull'erba, muoviamo col piede le pietre, così lasciamo una traccia a quelli che verranno e questo è già architettura. Quelle pietre che vivevano lì vengono rimosse per assumere un'altra posizione. Questo costituisce un vero e proprio attacco, ma è da questa violenza che si evidenzia la natura, si delineano la separazione, il movimento, il contatto, il ritmo tra uomo e natura.
E' quindi dall'incontro di una precisa conoscenza costruttiva, di una rigorosa astrazione delle forze della natura, che l'uomo, basandosi sulla propria sensibilità, riesce a scoprire, nelle pieghe di storie già narrate dal contesto, ulteriori significati, agendo con la consapevolezza di essere esso stesso parte del grande racconto espresso dalla Natura.
Come ha scritto G. Semper, l'uomo è circondato da un mondo pieno di meraviglie e di forze la cui legge egli intuisce e cerca di comprendere senza riuscire a decifrarla mai del tutto. Un'armonia di cui gli giungono solo accordi staccati e che mantiene il suo spirito insoddisfatto in uno stato di continua tensione. Allora egli evoca come per incanto quella irraggiungibile perfezione, si costruisce un mondo in miniatura in cui egli manifesta la legge cosmica, un mondo che, sia pur nella sua estrema piccolezza, è in se' concluso e in tal senso perfetto. In questo gioco l'uomo soddisfa il suo istinto cosmogonico.
Attraverso il reale godimento, e comprensione, della natura l'uomo, pur nel suo atto di distruzione di parte della natura preesistente, entra a far parte delle regole originarie del cosmo, non impone astratte teorie elaborate dalla sua mente, ma si pone al servizio dei suoi simili interpretandone i bisogni.
E' quindi una logica conseguenza, e non una particolare invenzione, quella di utilizzare, come materiali della costruzione del senso di un nuovo spazio per vivere, forze proprie della natura. La luce per Fehn è il materiale principale, la sua particolarissima luce nordica, ma anche la luminosità di tutti gli altri contesti in cui ha operato. Dire che la luce è un materiale della costruzione significa proprio attribuire un senso portante a questo elemento della natura, senza il quale la costruzione tutta "crolla" o almeno si presenta priva dei suoi sensi più intimi.
Al pari dell'ombrellone da spiaggia che viene mestamente chiuso in mancanza del sole, così leggere i musei di Fehn senza offrire il ruolo di protagonista alla luce significa snaturare la messa in scena predisposta dall'architetto.


I MUSEI
Ovvero sotto coperture sorrette dalla luce

Il sistema luce - diaframma - ombra rappresenta una tensione limite presente in tutte le opere espositive del maestro norvegese, quella cioè di operare così fortemente sullo spazio ed i suoi contenuti da relegare la struttura architettonica portante ad un ruolo secondario. Anzi, giocando sulla consuetudine di percepire le strutture verticali come responsabili del sostegno principale della copertura e degli impalcati, oltre che principali artefici della delimitazione, o se vogliamo parzializzazione, dello spazio interno, egli ribalta completamente il loro senso.
Le strutture verticali esistono, ma non sembrano portare la copertura, non sono il limite ultimo dello spazio e sicuramente non chiudono il fruitore al loro interno. Ovvero, volendo forzare questa particolare ricerca di una originale operatività di Fehn, le opere espositive dell'architetto norvegese, volendo distrarre al minimo il contatto tra l'uomo e gli oggetti esposti, fa leva sulle caratteristiche principali di questo rapporto mettendo a tacere il più possibile le altre. Cercando infatti un rapporto significativo nella visione e nel movimento del fruitore tra i reperti esposti egli insiste soprattutto sulla luce che investe il materiale raccolto, i percorsi che li collegano ed il rapporto che ogni oggetto instaura con il sito nel quale è inserito e dal quale è prelevato. Così facendo la struttura architettonica non può dichiarare altro che queste principali ragioni, non può gratificare secondo regole proprie forma o proporzioni di codici linguistici, nè può sovrapporre altri racconti alla trama principale che si deve sottoporre al visitatore. Essa può solo aggiungera altri piccoli personaggi che con le loro caratteristiche siano in grado di rendere più comprensibile il significato che si intende mettere in scena.
Così il rinunciare a parte della tradizione costruttiva dell'architettura ha fatto si che si potessero esplorare potenzialità spesso dimenticate dello spazio. Al pari dell'ombrellone infatti, desta più stupore il valore di internità e privacy di un ambito semplicemente preso in prestito dalla natura circostante che la grandiosa rappresentazione utilizzando parole note di linguaggi consolidati. Ne consegue che la continuità, fisica ma anche di significato, tra interno ed esterno è diretta, affermando così anche uno dei principi dell'architettura moderna, quello cioè della rappresentazione all'esterno della funzione e dell'articolazione dell'interno.
Lo spazio non è più semplicemente quello racchiuso dall'involucro strutturale bensì è quella parte della natura da esplorare che, protetta dalle intemperie, è definita come altro dal contesto grazie alle potenzialità psicologiche della copertura e del gioco di luci ed ombre che è in grado di evocare.

Ci si è spinti così ad identificare tra le opere di Fehn alcuni insiemi di opere realizzate che corrispondono a diverse interpretazioni dello stesso tema definito dal rapporto luce, copertura, illuminazione, oltre che da particolari sfumature circa l'interpretazione del conflitto di ruoli tra natura e manufatto. Si è giunti così a delineare una prima fase definibile delle coperture sospese, cioè di un chiaro tentativo di fare a meno della presenza di strutture portanti che non sia esclusivamente la luce, una successiva fase in cui la semplice sovrapposizione di una copertura su una parte della natura ne modifica il senso consentendo di raccontare la propria storia ed infine un'ultima in cui si rinuncia alla gerarchia tra strutture verticali ed orizzontali e la copertura si conforma organicamente e plasticamente tutta intorno allo spazio aprendosi solo in mirati punti per portare all'interno la luce che consente di esplicitare il senso dello spazio.

Le prime opere, in ordine di tempo, sono chiari esperimenti nella direzione di un uso "portante" della luce legato ad una ipotesi di smaterializzazione delle strutture verticali: il Padiglione della Norvegia a Bruxelles del 1958, oggi demolito, ed il Padiglione dei Paesi Scandinavi del 1962 ai Giardini della Biennale a Venezia, nei quali è palese quel desiderio a cui accennavamo di far sparire (o di rendere inconsistenti) le strutture verticali portanti e di demandare la qualità dello spazio espositivo esclusivamente alla luce modellata dal tetto.
A Bruxelles infatti Fehn concepisce pilastri e pareti totalmente trasparenti (in un materiale plastico sperimentale) i quali, oltre a perdere la loro consistenza materica, divengono altresì "ambigui conduttori" della luce captata dalla copertura. La cosa veramente fantastica nel progettare un edificio è che anche un solo pilastro, se realizzato secondo una diversa natura, ad esempio in vetro, può modificare il concetto stesso dell'architettura, dei ruoli e dei rapporti tra le parti.
Ambiti scoperti, lungo il muro perimetrale, inondati di luce si contrappongono a zone caratterizzate da ombre e penombre rese attraverso pannelli traslucidi posti tra le alte travi di legno lamellare. Ne risulta così che i luoghi, al suo interno, sono ottenuti esclusivamente per modulazioni e sfumature di luce.
Analogamente il Padiglione di Venezia ripropone una situazione in cui le strutture verticali risultano avere un ruolo secondario disponendosi, in questo caso, esclusivamente lungo il perimetro, ottenendo così un interno privo di interferenze ad eccezione dei tronchi degli alberi preesistenti volutamente lasciati da Fehn nelle posizioni originali. Il muro di fondo a "L" e l'unico pilastro conformato ad accogliere un grande albero (quasi ad ironizzare su chi porti realmente la grande trave di cemento armato) non interferiscono infatti con l'idea progettuale primaria dell'architetto: L'intenzione in quel caso specifico era di trasformare la luce mediterranea, italiana, in una atmosfera più nordica . Il tetto non è quindi più soltanto un elemento strutturale nel senso tradizionale del termine ma diviene un mezzo per manipolare le componenti della natura, esso diviene un diaframma la cui qualità strutturale e funzionale è resa attraverso la tessitura di due ordini di travi sottili e alte sovrapposte (ortogonalmente) con cui riuscire a guidare la luce, per rifrazioni successive, fin dentro lo spazio una volta raggiunto il tono voluto.
L'aspetto meramente funzionale, quello di proteggere dalle intemperie, è qui secondario, quasi che il soddisfacimento delle esigenze psicologiche sia sufficiente all'uomo che incontra l'arte, e viene demandato ad un espediente, squisitamente tecnologico, che offre il riparo opportuno senza apparire eccessivamente nella composizione: un semplice sistema di elementi in plastica inseriti tra le travi superiori infatti provvede a raccogliere e portare via l'acqua piovana.
Dopo queste prime esperienze Fehn ha la possibilità, attraverso opere realizzate e concorsi, di approfondire maggiormente il rapporto tra il luogo d'esposizione e l'oggetto da esporre.
Così le architetture cambiano forma e senso e vengono messe "a disposizione" del fine prefissato di proteggere i luoghi, veri o del tutto reinventati, che fanno parte integrante della storia a cui appartengono gli oggetti da esporre. Scoprendo così che è solo grazie al gesto del progettista che parzializza e delimita la Natura (sia essa natura naturale che natura costruita dall'uomo) che essa acquista un nuovo senso, un altro valore, diviene cioè comprensibile agli uomini e addirittura riscopre potenzialità sopite od inespresse, divenendo materia viva ed attuale, esplicativa dei suoi stessi significati (e questo è il tema di un museo).
Il Museo Hamar Bispegard (1967/79), il Museo della Nave "Wasa" (1982) e la Galleria d'Arte a Verdens Ende (progetto di concorso, 1988) stanno proprio a mostrare come un luogo possa assumere finalmente un'identità grazie al discreto intervento di definizione e di parzializzazione del progettista. In particolare se ad Hamar l'operazione riguarda la complessa stratificazione di rovine sovrapposte in epoche differenti da dover essere lette simultaneamente come in un unico grande racconto contemporaneo, nel caso del Museo della Nave e della Galleria d'Arte siamo di fronte al caso di integrazione tra natura ed artefatto, ed in particolare di una natura sotterranea del tutto reinventata predisposta ad esporre la nave ritrovata nel porto di Stoccolma ed un anfratto nella roccia già esistente ma finalmente caratterizzato e definito dall'intervento di chiusura previsto dal progetto di Fehn. Le strutture proposte in questi casi dall'architetto norvegese sono sempre semplici ed essenziali, per lo più in legno per le coperture (legno che Fehn assimila alla natura dell'albero, incarnazione del "transitorio") ed in cemento armato a faccia vista (che al pari della pietra evoca la stabilità e la gravità ed in quanto tale rappresenta la Storia) per le strutture di supporto interne, mai scontate o prevedibili risultano essere, tuttavia, sofisticati meccanismi nati per catturare la luce. Luce che, oltre a dover soddisfare, nei diversi casi, il necessario ed opportuno funzionamento, di rendere cioè leggibili le opere ed i reperti esposti, diviene anche "significante"dell'atto di modificazione della natura compiuto dal progettista. Per Sverre Fehn nel museo, il rapporto che esiste tra l'uomo e l'oggetto all'interno delle architetture e che privilegia il primo sul secondo, si ribalta completamente. Qui (nel Museo della Nave "Wasa") l'artefatto e le sue relazioni con il movimento dell'uomo nello spazio costituiscono l'elemento fondamentale della costruzione. A questo principio Fehn tiene fede in tutti i suoi progetti e realizzazioni di spazi museali dove riesce a far rinascere "le cose morte" investendole con una nuova luce.
Infine nelle opere più recenti troviamo un'ulteriore, e in quanto più matura anche ben più complessa, volontà di connotare lo spazio espositivo. Il rapporto che sussite tra copertura e spazio da coprire si modifica ulteriormente e, seguendo itinerari di pensiero sempre più liberi e sofisticati, il tetto perde la sua funzione di mero elemento di copertura orizzontale e si deforma fino a fondersi con le strutture verticali divenendo una sorta di guscio, più o meno complesso, che avvolge totalmente lo spazio rinunciando del tutto, talvolta, alle strutture "canoniche" della costruzione (pilastri, muri). Inoltre la copertura, e quindi tutta la struttura architettonica, non è più esclusivamente introversa, si esalta e trova la sua definizione anche nella realizzazione di spazi esterni, essa viene vissuta sia all'interno che all'esterno, sopra e sotto, come nella migliore tradizione del movimento moderno al pari delle sublimi "visioni" architettoniche di Michelucci. Lo stesso diaframma, vissuto ora da un lato ora da un altro, assume diverse ed inedite connotazioni psicologiche fruitive.
Il Museo del Ghiacciaio (1991), il Museo di Aukrust (1992), il Museo dei Graffiti (1993) (oltre ad altri recentissimi del 1994) insieme al precedente Museo Civico a Roros (1980) incarnano, con le dovute differenze ed eccezioni del caso, forme plastiche totalmente disegnate dal rapporto indispensabile di fruizione dell'esterno, legato all'inserimento nel contesto e alle preesistenze, e dell'interno, attuato sempre attraverso l'uso sapiente della luce naturale, strettamente connesso alle necessità di percezione giusta e controllata di quanto racchiuso e conservato nella struttura.
Il dentro ed il fuori sono ambedue intimi e sono sempre pronti a capovolgersi, a scambiare la loro ostilità.
Dalla struttura a ponte del 1980 del Museo Civico a Roros, sofisticata trappola per guidare la luce riflessa del fiume direttamente sugli oggetti esposti, il cui interno è come se fosse ricavato dentro la copertura (e non sotto), si arriva ai volumi costruiti per contrapposizioni di forme geometriche riconoscibili del Museo del Ghiacciaio e del Museo dei Graffiti i quali "misurano" e definiscono il contesto a partire dall'analisi del loro contenuto. Forma dell'involucro spaziale, luce interna e il percorso (fuori e dentro la struttura) divengono, come nella sceneggiatura di un film, le componenti del racconto ideato da Fehn.
La variabilità e diversità delle soluzioni proposte sta a mostrare, infine, come per Fehn non esistano forme o assetti tipologici precostituiti, bensì come l'aspetto finale sia sempre da scoprire nella ricerca attenta e scrupolosa, nel porsi cioè nei confronti del tema senza pregiudizi e consci del proprio ruolo.


S. Fehn in Byggekunst 1/1971
S. Fehn, Un'autobiografia architettonica, in AA.VV., Sverre Fehn architetto del paese dalle ombre lunghe, Ed. Fiorentino, Napoli 1994, pag. 18.
Il mito dell'origine tessile dell'architettura e il suo perpetuarsi nella storia delle soluzioni del rivestimento con motivi ornamentali di derivazione tessile, così come formulato da Gottfried Semper, in Die vier elemente der Baukunst nel 1851 e da lui riproposto in forma più ampia ed articolata nei suoi testi teorici più importanti, costituisce il nucleo fondante di una linea della cultura architettonica che alla metà dell'ottocento si propone come alternativa a quella del classicismo vitruviano. Al mito di una struttura costruttiva trilitica, che viene nobilitata in ordine architettonico, si contrappone il mito dell'involucro delimitante lo spazio, la cui caratteristica è la leggerezza, e rispetto alla quale la struttura è subordinata e soltato supporto.
G. Fanelli, R. Gargani, Il principio del rivestimento - Prolegomena a una storia dell'architettura contemporanea, Ed. Laterza, Bari 1994, pag. 4.
V. Gregotti, Prefazione, in G. Semper, Lo stile, Ed. Laterza, Bari 1992, pag. VIII.
G. Bachelard, La poetica dello spazio, Ed. Dedalo, Bari 1975, pag. 45
G. Bachelard, op.cit., pag. 40
G. Bachelard, op.cit., pag. 40
R. Arnheim, La dinamica della forma architettonica, Ed. Feltrinelli, Milano 1981, pag. 109
Questo pensiero Fehn lo ha espresso in molteplici scritti, in particolare quello riportato è frutto di una intervista tenuta da chi scrive, insieme a N. Flora e G. Postiglione, ad Oslo nel 1992 e riportata parzialmente in un piccolo catalogo gratuito, I musei di Sverre Fehn, pubblicato in occasione della mostra Sverre Fehn Architetto, tenuta a Milano presso la Sala Mostre della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano nel Febbraio 1994.
G. Semper, Lo stile, I vol., Prolegomena.
Questa, come altre affermazioni successive, è tratta dalla medesima intervista descritta nella nota 9, si badi comunque che si tratta di una libera traduzione dall'inglese, che pur rimanendo fedele al concetto espresso da Fehn non è la diretta trascrizione delle parole del maestro norvegese.
Vedi nota 11.
G. Bachelard, op.cit., pag. 238