cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

31 gennaio 2012

... è in libreria: iSpace!



Premessa
Prima erano i nonluoghi, incompresi, criticati, demonizzati. Poi si è assistito al loro proliferarsi e quindi alla richiesta sempre più pressante di luoghi, per quanto privi di identità e carattere, dove affermare il proprio diritto all'anonimato. Sono stati ribattezzati superluoghi, da alcuni, iperluoghi, da altri, dove le differenze di interpretazione non mettevano, in ogni caso, in dubbio l'opportunità di riconoscere e capire un fenomeno in atto ed in continua e pressante evoluzione. Oggi sono  ovunque, non compresi davvero e privi di una definizione. Non hanno un nome condiviso ma sono sempre più complessi ed articolati, molto più densi ed efficienti dei super e degli iper, sono l'oggetto del desiderio di ogni consumatore, sono ciò che tutti sono obbligati ad attraversare per prendere un treno o un aereo, sono la meta domenicale di ogni famiglia media italiana.
Cosa c'è oltre l'iper per poterli denominare nel mentre si sviluppano, crescono e cambiano? Ultra, extra, mega? A ben intendere le regole grammaticali della lingua italiana, ci sarebbe la possibilità, per indicarli il non plus ultra della categoria a cui appartengono, di utilizzare una semplice formula di ripetizione del termine: sono il “luogo dei luoghi”. Cioè il livello massimo, da tutti i punti di vista – funzionale, prestazionale, sensoriale, linguistico – che un luogo può raggiungere. La definizione potrebbe essere quella giusta, anche perché dichiarerebbe indirettamente che tali luoghi sono la sommatoria di più luoghi. Se da una negazione, però, si è passati ad un superlativo, sarebbe troppo banale sostituire tale superlativo con il superlativo dei superlativi, per cui il nome per definire il processo che è in atto necessita di un'altra radice, di trovare la sua identità, non come decremento o ipertrofia di qualcosa che esiste, ma come esempio o conseguenza di modi di essere, di stili di vita, non ancora catalogati o riconosciuti.
Ecco quindi la proposta di chiamarli “iSpace”, il cui significato il presente libro cerca di spiegare e giustificare. Nome facilmente comunicabile, semplice ed essenziale. Corto e chiaro come ci ammoniva in un suo film Massimo Troisi nel cercare il nome giusto per un figlio - né troppo lungo, né troppo breve - affinché non cresca “maleducato”.
Forse per questo, per non far evolvere in maniera “sconveniente” tali luoghi, si suggerisce questo nuovo termine, per quanto un po' ruffiano e alla moda, così che l'evoluzione diventi consapevole, ragionata e programmata e il futuro dei nonluoghi possa essere, almeno in parte, “ben educato”.








Indice
Premessa
Il progetto della funzione
Modificazioni funzionali
Dai nonluoghi ai superluoghi
Il linguaggio dei nonluoghi
Il caso rinascente
L'outlet, le ragioni del linguaggio
La forma del viaggio
Dai superluoghi agli iperluoghi
iSpace, il futuro dei non-super-iper-luoghi
Dietro le quinte
Bibliografia

17 gennaio 2012

avviso ai "naviganti"...


caro visitatore di architettura & co., caro spettatore,
forse gli ultimi post inseriti ti creeranno un po' di confusione.
Ed è giusto che ti spieghi.
Dopo molto tempo ho ritrovato i contenuti di alcuni miei vecchissimi hard disk e quindi, dopo averli convertiti a fatica da un vecchio programma di scrittura, sono rientrato in possesso di saggi, articoli un po' datati.
Si tratta di cose pubblicate, ma anche di versioni diverse da articoli pubblicati.
Mi sono reso conto che in fondo sono cose di cui a volte parlo ai miei studenti o che in ogni caso sono apparsi in riviste o pubblicazioni ora introvabili.
Per questo li ho inseriti, anche se senza date precise, perchè nella conversione dei file ho perso la loro data originale. Di alcuni ho perso anche le note, per cui le citazioni sono prive di riferimenti.
Ma mi fa piacere pubblicarli lo stesso e metterli a tua disposizione e in generale di chi è interessato alle mie ricerche.
In fondo Fehn, Lewerentz, Murcutt, il Funzionalismo nordico o il Modernismo uruguayano sono parte della mia formazione in cui ancora mi riconosco.
Per cui mi perdonerai la confusione causata dall'averli messi tutti insieme, ma spero possano soddisfare la curiosità che tu, come altri, ancora mostrate per quello che ho fatto e scritto, anche se ormai molti anni fa.
Per cui buona lettura....!

PG

La casa di Julio Vilamajò



Nel 1998 il gruppo di studio1, che partecipa fin dall’inizio alla ricerca sull’opera di Julio Vilamajó, raccoglie l’esito dei primi due anni di indagine in un libro2 inteso a divulgare la figura dell’architetto uruguayano, poco noto fuori dai confini del proprio paese. Degli stessi anni è anche il rinvenimento delle cartelle di disegni inediti - pubblicati nel presente testo - che restituisce nuovo interesse alle ricerche i cui stati di avanzamento trovano spazio su importanti riviste del settore3.
L’accurata lettura di tutti i grafici, la loro catalogazione e datazione, ha comportato, successivamente, una revisione, ovvero una conferma, di quanto a suo tempo scritto, anche alla luce di ulteriori ritrovamenti, da parte dei ricercatori dell’Instituto di Historia de la Arquitectura della Facultad de Arquiitectura de Montevideo, di carnet di schizzi e di disegni inediti del maestro.
In particolare, i disegni inerenti il progetto della sistemazione interna della propria camera da letto e di alcuni ambiti del soggiorno, hanno portato ad aggiornare e completare alcune considerazioni critiche a suo tempo espresse. Il presente saggio pertanto riprende l’analisi compiuta4 sulla casa che Julio Vilamajó ha progettato per se' stesso nel 1930 a Montevideo, arricchendola di nuove indicazioni derivanti dallo studio dei grafici, schizzi e dettagli che sono stati necessari alla realizzazione degli interni.

Un progetto autobiografico

La casa di Julio Vilamajó non deve essere letta solo come un episodio autobiografico le cui variazioni, rispetto ai progetti destinati ad una committenza privata e pubblica, risultano essere concessioni al proprio stile di vita. Rispetto l'intera opera dell'architetto uruguayano essa è descritta dai critici come l’apice della “prima fase”, il punto di arrivo di un percorso ancora intriso della cultura eclettica e Decò, cui si possono fare afferire le sue architetture giovanili. Vilamajó, infatti, nel 1921 vince l'ambito premio del "Gran Prix", versione uruguayana del più noto "Gran Prix de Rome" francese, in seguito al quale trascorre quattro anni viaggiando per il vecchio continente da poco uscito dal conflitto mondiale, andando a visitare le grandi architetture classiche oltre che i piccoli centri andalusi e dell'Italia meridionale. Tale esperienza segna non poco la sua attività professionale al ritorno in patria che risente del lungo bagno nell'architettura europea. Le opere dal '25 al '30 sono caratterizzate da una certa razionalità e semplicità dell'impianto che si coniuga però con suggestioni linguistiche desunte dagli stili della storia e della tradizione, unitamente alle espressioni tipiche della cultura Decò.
Dal punto di vista formale, la casa presenta, nelle sue linee principali, richiami linguistici e formali tipici di un linguaggio dell'architettura in quegli anni molto diffuso in Uruguay. Quello che si può definire, per estensione di una terminologia tipica della storia dell'architettura europea, "modernismo uruguayano" è un'originale sintesi di una grammatica tradizionale con contaminazioni linguistiche ora prelevate dagli stili del passato, ora dal mondo romantico e vernacolare, ora dalla cultura Decò, fino alle suggestioni già suggerite dal Razionalismo e dal Funzionalismo. La casa di Vilamajó non rinuncia né ad un aspetto “consueto e tradizionale” in cui sono riscontrabili frammenti irrinunciabili del lessico classico - il cornicione sporgente, la presenza di elementi chiaramente decorativi e l'attenzione per i dettagli costruttivi - né d'altro canto fa a meno di ammiccare ad alcune soluzioni formali - l'arretramento dell'ultimo piano e la soluzione di volumi liberi sul tetto, la libera disposizione delle finestre e l'assenza di basamento - che invece lasciano intravedere la consapevolezza di un nuovo mondo dell'architettura. Appare quindi una precisa "volontà di forma" dell'architetto che non scaturisce semplicemente da una banale corrispondenza tra struttura e immagine della stessa, né si rifà a canoni collaudati del lessico in vigore all'epoca. La struttura portante è, infatti, sottoposta a continue invenzioni tecnologiche per mantenere coerenti tutte le parti espressive del volume architettonico. Ne sono una prova le travi ora a spessore ora estradossate all'interno degli spazi e la loro complessa e artificiosa articolazione sul terrazzo al fine di arretrare il volume dello studio. Queste travi vengono lasciate a vista sopra al cornicione e suggeriscono un sottile gioco di parti in equilibrio stigmatizzato dal piccolo pilastrino metallico d'angolo di cui risulta impossibile comprendere il reale ruolo: se effettivamente statico o semplicemente espressivo. Tale complessità, riferita ad un semplice telaio strutturale, quindi non può essere frutto di una mancanza di rigore ma piuttosto di un preciso fine dove, al di la' di facili slogan di moda, risulta per Vilamajó più importante la capacità narrativa ed evocativa della forma architettonica rispetto ad un lessico consolidato, piuttosto che l'adesione a nuovi principi formali. La sua architettura, infatti, sembra giocare sullo stupore e sull'invenzione ma in modo sommesso, partendo da un mondo delle forme in cui era ancora possibile riconoscersi ed invitando a scoprire lentamente suggestioni e ipotesi per il futuro proposte dalle avanguardie e dal Movimento Moderno in generale. In tal senso va allora modificato il giudizio per il quale la sua casa rappresenta il culmine della prima fase, essa invece è il punto di svolta che già contiene in nuce le grandi trasformazioni che l'architetto uruguayano metterà in essere dal '30 in poi e che troveranno in capolavori come la Facoltà di Ingegneria di Montevideo e il complesso di Villa Serrana, la loro massima espressione.
Rispetto alle residenze progettate negli anni precedenti, la sua casa mostra alcune particolarità, distaccandosi dalla distribuzione tipologica tradizionale e proponendo un impianto molto semplice, basato su un unico collegamento verticale - la scala - che serve in successione i quattro livelli della casa. L'ingresso appare del tutto assente e l’accesso alla casa avviene direttamente attraverso il garage. Innovativo risulta anche il percorso che invita agli spazi interni che esclude la fruizione del giardino - normalmente posto o come patio di ingresso o come peristilio sul retro - e che prevede una distribuzione non canonica degli ambienti privati quali la camera da letto rispetto alla zona giorno e lo studio, al quale si accede solo interferendo con la zona notte.
Nel lotto a disposizione l'architetto allontana la parte abitata dal perimetro confinante con le due strade, e la "protegge" dalla strada più trafficata con il giardino, il quale, per essere vissuto con maggiore privacy, viene sollevato dalla quota strada assumendo la sua particolare conformazione chiusa ed introversa. La casa si concentra verso l'angolo a ridosso degli altri fabbricati e, costretta ad avere due lati ciechi, si predispone ad utilizzare al meglio l'angolo libero rivolto verso la città. Al visitatore che giunge dal boulevar Sarmiento l'alto muro del giardino, che ricalca il profilo del lotto, impedisce la visione dell'interno, incombe sulla persona fino a condurlo verso il prospetto su Domingo Cullen dove, l'arretramento del fronte, invita invece ad avvicinarsi alla casa. Qui si scopre che non esiste un vero ingresso e che il garage è pensato come uno spazio di mediazione tra l'interno e l'esterno. Ne è conferma il raffinato trattamento superficiale delle pareti, del pavimento e del gradino nero che sottolinea l'ubicazione della porta di accesso vera e propria il cui disegno è, a tutti gli effetti, quello di un “portoncino da esterni”. Vilamajó considerando insufficiente il poco spazio prospiciente l'edificio e non volendo sfruttare il giardino come patio, preferisce ingrandire il semplice varco di ingresso fino a farlo diventare un vero e proprio “spazio dell'accoglienza” - destinato certamente anche all'auto - ma che nel quotidiano, una volta lasciati aperti i grandi portoni di ferro, diviene un luogo in bilico tra pubblico e privato, tra interno ed esterno: ambito della casa che risulta tuttavia ancora parte dello spazio urbano.
Da tale atrio, luogo di mediazione, si accede alla scala che conduce ai piani superiori. Questa, sebbene sia dimensionalmente sempre uguale, cambia aspetto e carattere di rampante in rampante, ora per il colore della tinteggiatura delle pareti, ora - soprattutto - per il tipo di relazione percettiva che instaura con gli spazi che serve. Essa sale dal piano terra, stretta dall'avvolgente parete curva che la delimita, e giunge al livello del soggiorno sul quale si apre completamente, lasciando libera solo la struttura portante circolare. Visivamente lo spazio si dilata all'improvviso anche grazie alla lunga finestra a nastro che passa dietro il pilastro con gli angoli arrotondati e che delimita un tratto di arredo fisso posto ad inquadrare la prospettiva di chi sale il rampante. Proseguendo verso il livello successivo i parapetti aperti verso gli spazi principali della casa (contrapposti alla parete chiusa verso gli ambienti di servizio) catturano, come in una dissolvenza cinematografica, lo sguardo del visitatore che abbandona il soggiorno per lo spazio del pranzo. Qui la parete con l'attrezzatura fissa - fondo della prospettiva della rampa a salire - sormontata da uno specchio e da una lampada posta di lato, evidenzia la volontà di realizzare un effetto diverso piano per piano coerentemente con la funzione. Lo spazio del soggiorno è, infatti, caratterizzato da una doppia assialità (l'asse della finestra del giardino rimarcato dalla presenza del pilastro circolare della scala e l'asse ortogonale della finestra su strada segnato dal disegno del pavimento e dalla posizione della lampada sul tavolo) ma è altresì integrato allo spazio della scala grazie al disegno continuo del pavimento che accomuna i due ambiti (a differenza del piano sottostante dove la pertinenza del pianerottolo è evidenziata da un pavimento diverso).
Al piano successivo un grosso mobile con cassetti fa da sfondo alla scala e individua un ambiente che può risultare chiuso, ovvero coinvolto con lo spazio dell'anticamera, grazie ad una tenda. L'esiguità dello spazio della scala a questo livello è riscattata, anche nel caso di totale separazione dall'anticamera, grazie alla luce - sia essa artificiale che naturale - proveniente dall'alto, dallo studio sovrastante. Il passaggio quindi dal piano del pranzo allo studio (non solo privato ma anche spesso luogo di riunione con clienti e studenti) non compromette la privacy della camera da letto - dotata di un percorso indipendente verso la stanza da bagno - ma neanche diviene un momento di sospensione del racconto percettivo destinato al fruitore che invece, rispetto ad una serie di accadimenti disposti sempre dal lato del giardino, ha qui l'apparizione del piccolo e prezioso ambito dell'anticamera predisposto sul lato opposto.
Le strutture arredative fisse, pur mostrando un’autonomia compositiva e morfologica rispetto l’involucro murario, risultano sempre chiarificatrici - per ambienti quali il soggiorno, il pranzo e l'anticamera della zona notte - delle modalità d’uso dello spazio e della volontà espressiva dei luoghi da abitare che non sono mai consuete e che rileggono la tradizione in chiave innovativa.
Le scelte che sottendono l’organizzazione degli arredi della camera da letto non sono, invece, di immediata comprensione. Qui i materiali di finitura, pur sottolineando con coerenza il desiderio di costruire un luogo raccolto e accogliente, sono altresì messi in opera secondo una disposizione che, letta insieme alla traccia degli arredi mobili - tra cui il letto - desumibile dalle fotografie d'epoca, suggerisce un’organizzazione spaziale non legata né alla percezione, né al dimensionamento funzionale. In particolare l’organizzazione non tiene conto dell’involucro architettonico, come si può evincere dal fatto che non è in rapporto con la posizione dei vani delle finestre. La stanza è concepita in due parti, separate tra loro da una tenda apribile. L’andamento di tale tenda è stato oggetto di numerose soluzioni che sono approdate in quella realizzata dove la cortina assume una forma morbida e sinuosa, non rettilinea, capace di “ammorbidire” il rapporto tra i due ambiti evitando di separarli nettamente. Lo spazio immediatamente a ridosso della porta di accesso alla camera è pensato come un luogo di accoglienza e raccoglimento, riposo e conversazione, caratterizzato dalla presenza di una dormeuse integrata con il disegno del margine. L’intero perimetro interno è infatti progettato come un unico guscio in legno contrappuntato da parti in stoffa e specchi. Accanto al divano fisso l’architetto progetta un angolo di specchi, capaci di riflettere la figura umana ma anche di moltiplicare all’infinito la stanza, secondo una lettura non ortogonale.
Oltre la tenda è disposto il letto il quale, avvolto da attrezzature fisse basse che fungono da cassettiera e comodini, presenta la “testa” contro la finestra in modo non usuale se si pensa che il vano della finestra stessa non ha alcuna relazione dimensionale o di posizione con il letto. Analogamente il pavimento presenta un disegno estremamente curato e raffinato che non sottolinea però né la disposizione degli arredi, né la presenza della tenda, né il modo d’uso dell’ambiente e risulta pertanto indipendente dalla vita che si svolge all’interno dello spazio. Tali discrasie possono essere certamente il frutto di ripensamenti, di continui adattamenti al proprio stile di vita, ma quello che resta evidente è la capacità di gestire per intero tutto il processo progettuale - dalla struttura agli arredi - e di dare, in definitiva, proprio a questi ultimi, il ruolo di protagonisti capaci di interagire con la vita di ogni giorno. Sono infatti i terminali architettonici, quelle parti di arredo fisse, luoghi dove l’involucro architettonico si specifica in sistemi funzionali per essere adoperati dall’uomo, che definiscono realmente la misura e la ragione stessa degli interni, l’apparato architettonico, così presente e accurato all’esterno, si stempera nel panorama interiore e il risvolto della “messa in scena” ad uso della scena urbana diviene il sensibile disegno dell’abito “su misura” privato e personale.
Parte integrante dell'articolazione interna risultano essere i percorsi e gli spazi del piccolo giardino. Questo costruisce delle alternative percorribili alla scala interna e si pone come logica continuazione dello spazio della casa. Il giardino è necessario al corretto svolgimento delle funzioni, non solo in quanto spazio fisico, ma anche come luogo su cui posare lo sguardo, scena da fruire, filtro per inquadrare e selezionare la vista della città. Esso inoltre ha le sue specifiche qualità che lo rendono un prezioso luogo della contemplazione e della riflessione, pieno di mille accadimenti - la parte coperta dalla terrazza, la piccola vasca d'acqua con il bronzo al centro, la zona del verde con l'abbeveratoio per gli uccelli, la scala, il frangisole, il sistema per il sostegno dei rampicanti - che consentono di viverlo nelle diverse ore del giorno e nei diversi periodi dell'anno.

Regole compositive e rapporti dimensionali

La presenza delle decorazioni in ceramica colorata poste sulla facciata - piccolo bassorilievo raffigurante una sorta di prora di nave in un mare ondoso - suggerisce due ipotesi: la prima di dare "spessore" e dinamicità alla facciata attraverso il ritmo delle ombre portate sulla superficie dell'intonaco che a sua volta, essendo un impasto a base di mica, già per sua natura, risulta particolarmente sensibile alle variazioni luminose; la seconda di voler interpretare in chiave contemporanea un motivo classico della decorazione parietale che è quello del chiodo di bronzo o della borchia di sostegno delle lastre di rivestimento secondo un sistema già usato da Vilamajó nel progetto dell'Agenzia General Flores del Banco de la Republica Oriental del Uruguay. A differenza di tale opera dove le decorazioni sono poste sull'incrocio di un tracciato inciso nell'intonaco chiaramente ispirato ad un rivestimento a blocchi o a lastre, nella propria casa il tracciato scompare e i piccoli punti colorati rimangono come evanescenti fantasmi sulla pelle delle pareti. In questo caso quindi le ceramiche incastonate in facciata perseguono lo scopo di mettere in risalto un tracciato soggiacente, non visibile, che le lega le une alle altre. Esse infatti descrivono una trama ideale che giustifica e regola anche la disposizione di tutti gli altri elementi della facciata, attraverso un modulo quadrato che, ripetuto sei volte, definisce un rettangolo con i lati in proporzione aurea. L'intera facciata, compreso l'inviluppo dei volumi superiori, è inscrivibile in un rettangolo aureo, mentre la parte che va dalla linea di terra al cornicione corrisponde ad un'altra figura geometrica densa di implicazioni che è il rettangolo cosiddetto √2, dove i lati sono cioè in rapporto con 1 e √2.
Tutti prospetti sono dimensionati sui due rettangoli: la facciata su Domingo Cullen vede il modulo basato su √2 proporzionare la finestra del pranzo ed i sottomoduli di quella del soggiorno, oltre a tutte le aperture di servizio sul lato sinistro. Il rettangolo √2, detto anche dinamico, modula inoltre in diagonale la disposizione delle decorazioni ceramiche oltre alle parti principali della composizione delle pareti del giardino. Le misure auree invece regolano la disposizione delle ceramiche in orizzontale, pervadono la divisione del portone di ingresso e delle finestre al piano terra, oltre a dare forma al vano aperto sul terrazzo e al volume del serbatoio dell'acqua sul tetto. Analogamente, ma in maniera addirittura più chiara, il prospetto sul boulevar Sarmiento è una rigorosa sovrapposizione alternata dei due rettangoli che danno vita ora al primo tratto del muro del giardino, poi ai diversi livelli dello spiccato, fino alle finestre, all'altezza dei parapetti e delle ringhiere.
Nello studio delle piante e delle sezioni la presenza di tali moduli si palesa come cosciente volontà progettuale. L'impianto del vano del garage è fondato su un rettangolo aureo così come il disegno dei rivestimenti parietali dello stesso seguono rigorosamente quello dinamico. Lo stesso ingombro della scala, in pianta, è dato dalla giustapposizione di geometrie auree e la sezione trasversale del suo vano è la somma di due rettangoli aurei sovrapposti. Anche la composizione degli spazi del giardino è basata su tali proporzioni, dalla dimensione generale delle varie aree fino al più piccolo taglio delle lastre di rivestimento. Tali figure geometriche sono rintracciabili anche alla composizione dello spazio della camera da letto: il disegno del pavimento in getto di graniglia di cemento circondato da listelli di parquet è infatti un rettangolo dinamico mentre le geometrie del legno seguono l'aggregazione di multipli di quello aureo che dimensiona inoltre anche gli sportelli dei mobili ed il modulo degli specchi. E’ interessante rilevare che, malgrado esistano relazioni non usuali tra la disposizione degli arredi, il disegno del pavimento e la struttura architettonica, ogni componente non rinuncia e assecondare i moduli proporzionali, divenendo così voci distinte in una orchestrazione armonica unitaria. Non è un caso quindi che il disegno stesso della ceramica di decorazione esterna da cui si è partiti per individuare le misure che proporzionano l’intero organismo architettonico, sia in prospetto che in sezione, è relazionato ai due rettangoli dimostrando che non c’è casualità in tali misure ma che esiste piuttosto una precisa volontà da parte di Vilamajó di utilizzare per ogni più piccola parte tale sistema proporzionale.

Fuori da ogni ulteriore considerazione in conclusione è giusto ricordare che un’opera così minuta non può che essere il racconto – o il disvelamento – della volontà dell’uomo di lasciare sempre, ai suoi simili, un segno di se’, una traccia del proprio pensiero, la testimonianza concreta di essere stato attivo protagonista della propria esistenza. Talvolta tracce troppo chiassose possono dare vita a fenomeni di rifiuto o di estraneità da parte dei destinatari, al contrario la delicatezza e la raffinatezza di un atteggiamento discreto non può non essere percepito dalle persone sensibili.
Certe volte infatti l’invisibile è più presente del visibile, così come trasgressioni alla tradizione consolidata, ovvero rigorose regole armoniche e geometriche, possono rendere l’ambiente più vicino alle esigenze e aspettative dell’uomo.


1 Nicola Flora, Immacolata C. Forino e Paolo Giardiello hanno dal 1996 partecipato alle ricerche iniziate da Agostino Bossi nell’ambito della collaborazione con il Taller Otero della Facultad de Arquitectura de Montevideo. Lo studio si è avvalso anche della collaborazione di Ludovico M. Fusco e, attualmente, di Amedeo Giordano, Antonella Minopoli e Luca Mosele.
2 AA. VV., Julio Vilamajó. La poetica dell’interiorità, Napoli 1998.
3 Cfr.: A. Bossi, Poetica dell’interiorità, in AREA n°55, Milano 2001; A. Bossi, Segni d’interno, in CASABELLA n° 697, Milano 2002.
4 P. Giardiello, Il rilievo della casa di Vilamajó, in AA. VV., Julio Vilamajó. La poetica dell'interiorità, Napoli, 1998

Il macro-oggetto come strumento didattico


Quest’anno, nell’introdurre il tema al secondo semestre del Laboratorio di Arredamento II, centrato sul concetto di macro-oggetto, ad un certo punto della spiegazione, non ho potuto fare a meno di ricordare di quando, ancora nel ruolo di chi ascolta le parole del docente, a mia volta sentii parlare per la prima volta di queste tematiche. Mentre chiarivo agli studenti cosa implicasse pensare ad uno spazio attrezzato con un unico oggetto atto a soddisfare molteplici necessità e funzioni ho dovuto interrompere la spiegazione e, distratto ormai dai ricordi, nello stupore dei miei giovani interlocutori, ho cominciato a raccontare loro di quanto mi sorpresi anche io nel sentire parlare in quei termini dell’arredamento.
Come la gran parte degli studenti di quel lontano III anno, e forse proprio come loro che erano lì ad ascoltarmi, allora ero pienamente convinto di avere già inteso molto dell’architettura, ero pienamente appagato dai buoni risultati degli esami di progettazione architettonica, e non immaginavo certo che un esame come quello di Arredamento avesse potuto mettere in discussione le mie, apparentemente ferme, convinzioni.
Decisamente sono passati molti anni da allora, e di molte, molte cose mi sono dovuto ricredere, fino al punto di ritrovarmi oggi, a distanza di tanto tempo, ad usare metodi e stratagemmi didattici simili a quelli che, allora, minarono lentamente le mie ottuse certezze portandomi, un poco alla volta, su una via più critica e di ricerca.
Al di là dei contenuti storico-critici desumibili dalle esperienze e dalle ricerche sul concetto di macro-oggetto cos’è realmente in grado di comunicare tale tema agli studenti in via di formazione?
Per rispondere a tale quesito forse è il caso di ricordare quanto le discipline dell’arredamento e dell’architettura degli interni, sia in ambito accademico che in quello professionale, non siano ancora del tutto comprese. Arredare risulta nell’immaginario collettivo un’attività minore, successiva, a quella del progettare (architettura). L’arredamento è in fondo ancora considerato qualcosa che interviene in un secondo momento ad attrezzare lo spazio architettonico.
Arredare, invece, significa rendere possibile l’uso dello spazio architettonico che altrimenti risulterebbe un vuoto inutile, e l’azione di dotarlo di attrezzature e strumenti, di cose e utensili necessari allo svolgimento delle attività umane implica la definizione del significato stesso degli ambienti destinati ad accogliere le attività umane. Provvedere al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo non significa esaudire esclusivamente istinti primari e fisici, quelli legati all’uso e alla risposta funzionale dei luoghi, ma significa dare una risposta, o meglio dare forma e sostanza, anche alle necessità psicologiche, di rappresentazione e di identificazione con l’ambiente costruito. L’arredamento, in definitiva, determina una dimensione estetica attraverso la forma stessa dell’abitare e può essere considerato il punto da cui guardare, a tutte le scale, il progetto di architettura nel suo complesso rispetto al vivere quotidiano in quanto supporto essenziale agli interessi culturali e alle aspettative sociali.
Da questo punto di vista quindi si può comprendere quanto sia utile – e difficile da assimilare – un esercizio che prova a suggerire un’attività progettuale tesa ad affermare la possibilità che un solo oggetto di arredo sia capace, oltre che di soddisfare i bisogni per cui è pensato, anche di “generare spazio”, e di determinare una modificazione funzionale, percettiva e di senso, dell’ambiente in cui è inserito.
In generale tutti i sistemi di arredo sono parte integrante della definizione qualitativa, oltre che morfologica, dello spazio abitato, al pari dei suoi margini che, in una visione progettuale più attenta, non rappresentano solo i limiti fisici dell’interno - della scatola muraria - bensì un confine fisico tra interno ed esterno conformato intorno all’uomo e alle sue esigenze fisiche e psicologiche. In più il macro-oggetto diviene un momento “estremo” di tale visione dove la concentrazione delle strutture arredative in pochi elementi fa si che queste, perdendo il loro ruolo canonico di dotazioni significanti dell’interno, si arricchiscono a loro volta di una internità fruibile, dialogano sullo stesso piano con i margini delimitanti lo spazio che, di conseguenza, assumono un ruolo e un senso proprio nel rapporto e nel confronto con il macro-oggetto.
Per cui, tornando al quesito sopra espresso, un esercizio basato sul concetto di macro-oggetto abbassa le difese, o meglio i pregiudizi, degli studenti spostando l’attenzione progettuale dalla scatola muraria  (margini interni dell’involucro), e dalla sua forma e dimensione, al sistema integrato di strutture arredative (macro-oggetto), non più complementari ma indispensabili a completare la morfologia dell’interno abitato. Tutte le opportunità dello spazio – i percorsi, i divisori, i sistemi di collegamento verticali e orizzontali – passano dall’essere componenti dell’architettura a fondersi in un unico sistema, sintesi integrata e omogenea di arredo, struttura e spazio. Scale, pareti, pannelli scorrevoli, finestre e soppalchi non sono più visti come parti di completamento del manufatto architettonico ma vengono declinati, organicamente e sinteticamente, alla scala dell’oggetto. In questo passaggio non solo si abbandonano i materiali tipici della costruzione architettonica sperimentando tecniche e soluzioni proprie dei sistemi arredativi, ma si innescano possibilità di dialogo con il fruitore, dimostrando che ogni elemento dello spazio è in grado di generare sensazioni e emozioni in chi lo percorre o usa.
Per essere chiari – e didascalici – si passa da una visione  dove normali e anonimi componenti costruttivi, come soppalchi, ringhiere, pannelli, porte e scale, realizzati secondo il fare tradizionale, vengono poi in seguito completati e arricchiti con finiture ovvero accostati a oggetti d’arredo convenzionali pensati e dimensionati per altre condizioni, ad una nuova prospettiva dove il progetto prevede direttamente che un mobile si integri con una libreria, con una scala e con un piano su cui poggiare il letto, fondendosi in un’unica nuova e inedita entità, priva di una forma precostituita ma certamente misurata e proporzionata all’uomo e ai suoi movimenti.
Certo questo esercizio va valutato in una precisa ottica didattica e di sperimentazione. Il tema del macro-oggetto non direttamente implica una fattibilità riproponibile nella prassi professionale corrente. La complessità e, a volte, l’esagerata articolazione attraverso la quale gli studenti giungono alla soluzione del problema non possono trovare un riscontro plausibile nelle richieste reali del mercato.
E’ necessario però ribadire la fondatezza del criterio sperimentale, capace di costruire una logica metodologica con la quale invece potere affrontare, e rinnovare i temi dell’abitare nel quotidiano. La ricerca e la sperimentazione offrono suggestioni capaci di influenzare e adeguare, anche parzialmente o solo in determinati settori, i criteri con i quali affrontare il progetto di interni.
In questi ultimi anni campi operativi che hanno certamente beneficiato di tali ricerche, che stiamo definendo inerenti il macro-oggetto ma che naturalmente lasciano intuire maglie metodologiche più ampie, sono il disegno per gli arredi della cultura del nuovo nomadismo, di quell’attitudine cioè a cambiare spesso abitazione che comporta un radicamento minore negli spazi domestici, il disegno per il commercio e il lavoro che comportano continui adeguamenti e modificazioni, oltre che la ricerca sulle strutture di prima emergenza o di architetture sostenibili per i paesi in via di sviluppo.
Tornando alla lezione con i miei studenti, alla fine del racconto personale li ho trovati, da un lato, confortati dal fatto che già altre generazioni di studenti si fossero dovute confrontare con tali problematiche ma, in fondo, anche sinceramente stupiti del fatto che teorie e sperimentazioni iniziate negli anni ’60 e ’70 non abbiano ancora trovato una risposta adeguata nella società attuale e quindi di come, in fondo, lo sviluppo e i cambiamenti di gusto e di vita siano estremamente lenti.
Tutto questo avrà turbato le loro giovani coscienze volte ad un fare capace di incidere e di rivoluzionare il presente in maniera significativa e avrà aperto loro la prospettiva, più matura forse, di un mestiere ostinato e continuo capace di guardare anche oltre i limiti dell’immediato quotidiano.

Macchine da abitare. Architetture domestiche di Glenn Murcutt


A guardare le case progettate e realizzate da Glenn Murcutt viene in mente un’espressione spesso usata in architettura: "macchine per abitare"; dizione che, com'è noto, ha una collocazione precisa nella storia del costruire. Eppure, le abitazioni realizzate da Murcutt in Australia hanno poco a che fare con l'estetica della macchina di inizio secolo e tantomeno sono figlie dei linguaggi che tale periodo ha prodotto.
Le "macchine da abitare" evocate da tali architetture sono assimilabili piuttosto a fragili ed instabili insiemi di pezzi di diversa provenienza assemblati a formare ripari essenziali, costruiti come meccanismi capaci di seguire le esigenze dell'uomo ed i capricci del clima, ordigni all'apparenza primordiali attraverso i quali misurarsi con il contesto. "Macchine" in quanto, prima di tutto, strumenti per soddisfare i bisogni, per conseguire i risultati o i benefici sperati, mai sottomessi alla ricercata morfologia propria della tecnologia ostentata, del sistema impiantistico estrapolato e palesato in superficie. Rifugi non troppo lontani da quelle dimore improvvisate - come ad esempio vecchi pulmini privi di ruote e insabbiati nella polvere del deserto ed esautorati per sempre dal loro compito originale - che si possono trovare nelle pagine di romanzi o racconti, in quella letteratura cioè che ha cercato di tratteggiare il profilo di un paese - l'Australia - altrimenti difficile da immaginare per chi non ha avuto la possibilità di visitarlo.
E' inutile quindi negare che, per la cultura europea, le valutazioni di certi comportamenti, frutto della contaminazione tra culture indigene e popolazioni emigrate, non possono non risentire anche dell'atmosfera mitica contenuta nei resoconti di scrittori che hanno saputo far conoscere un mondo che resta pur sempre, nell'immaginario collettivo, "il paese di Quelli a Testa in Giù". Infatti, "se dall'Inghilterra si scava fino dall'altra parte della terra, si sbuca sotto i loro piedi" .
Le case di Murcutt assomigliano incredibilmente, nella sostanza, nella capacità cioè di giungere ad un risultato utile e coerente senza pregiudizi formali di partenza, alle povere realizzazioni raccontate da Chatwin, come la dimora di padre Terence che "viveva in un eremo rabberciato, fatto di lamiere ondulate e imbiancato a calce, in mezzo a gruppi di pandani su una duna di sabbia bianca fine come farina. Aveva assicurato le pareti con dei tiranti per impedire che i cicloni facessero volere via le lamiere. Sul tetto c'era una croce, due pezzi di remo rotto legati insieme" ; o la casa di Hanlon: "riparata da una fila di tamerici, c'era una baracca di lamiera non dipinta, di un grigio arrugginito, con un camino di mattoni nel mezzo" .
Tale provvisorietà dei luoghi in cui svolgere le attività quotidiane, proprie di una contaminazione tra la cultura aborigena e le tradizioni delle popolazioni immigrate , in realtà non è frutto di una incapacità costruttiva o di un rifiuto del contesto, al contrario essa è il chiaro segnale di un profondo rispetto per la propria terra - sia essa natia che adottata - che si fonda sull'attitudine delle popolazioni locali a considerare "sacro" il rapporto con la natura: "se diamo retta a loro [...] l'Australia è tutta un luogo sacro" . Tale  sacralità del territorio si è tradotta nel rapporto contemporaneo che interrcorre tra l'uomo e il suo habitat in una consapevolezza delle potenzialità della natura, che influenza necessariamente le scelte che sottendono l'atto insediativo, la costruzione cioè di un riparo in cui risiedere. "La filosofia degli aborigeni era legata alla terra. Era la terra che dava vita all'uomo; gli dava nutrimento, il linguaggio e l'intelligenza, e quando lui moriva se lo riprendeva. La “patria” di un uomo, foss'anche una desolata distesa di spinifex, era un'icona sacra che non doveva essere sfregiata. [...] Ferire la terra [...] è ferire te stesso, e se altri feriscono la terra, feriscono te. Il paese deve rimanere intatto, com'era al Tempo del Sogno, quando gli antenati con il loro canto crearono il mondo" .
Insediarsi invece, secondo la tradizione costruttiva dei paesi dell'area mediterranea, comporta necessariamente una modificazione del territorio: per tali culture il gesto primitivo che identifica il rapporto tra l'uomo e la natura si può far risalire al tracciato delle fondazioni, al solco che, come una ferita inferta alla terra, accoglie la massa muraria, il cui perimetro definisce, indelebilmente, un nuovo luogo che prima non esisteva, individuando, per sempre, un qui da un lì, un dentro da un fuori. Per la cultura aborigena, al contrario, non è necessario costruire una frattura insanabile nella continuità della natura, il rifugio di cui necessita l'uomo deve essere il più lieve possibile, strutture atte all'uso richiesto appena appoggiate al suolo, per non creare discontinuità nella terra e, soprattutto, per non separare la propria vita dal ritmo della natura.
La provvisorietà delle prime costruzioni spontanee , come dei successivi luoghi dove svolgere il proprio lavoro , diventa poi la cultura di una "leggerezza insediativa" dove l'uomo, cercando di non prevaricare la "sacralità" della terra, individua archetipi formali, che poco si lasciano influenzare da stili o mode importati , che si basano invece sul rapporto tra necessità e possibilità costruttive. Tali manufatti, all'apparenza instabili e non definitivi, non intaccano la continuità tra l'uomo e la natura, anzi sono il risultato della consapevolezza, maturata con l'esperienza, che certi comportamenti estremi del clima non sono governabili. Le temperature, i venti o le piogge non possono essere sottomessi e pertanto è più logico assecondarli adattando i propri ritmi di vita. Le capanne o i depositi non si oppongono alla forza dei venti, ma piuttosto si lasciano attraversare, si piegano e trovano la loro forma in armonia con tali eventi naturali.
La "tenda" è quindi l'archetipo primitivo di riferimento, essa, dietro un'apparente fragilità, nasconde, in realtà, una logica insediativa basata su valori e contenuti molto forti capaci però di non alterare il contesto, anzi di entrare con esso in un rapporto di simbiosi e scambio.
O. M. Ungers ha ben descritto tale atteggiamento insediativo, opposto a quello della forza e della solidità incarnato dal "muro" e dal recinto, affermando che "l'architettura conosce due tipologie fondamentali: la caverna e la capanna. La prima simboleggia il durevole, la costante, è persistente e legata a un luogo. La seconda è mobile, ha un che di temporaneo ed effimero, e può cambiare continuamente luogo. Nella caverna prende corpo la stabilità, nella capanna la mobilità" .
La duplice dialettica, stabilità/mobilità e persistente/temporaneo può diventare la chiave di lettura per approcciare l'architettura australiana e l'opera di Murcutt in particolare. Tali principi comportano un rapporto tra l'uomo e la terra fatto di grande rispetto e profonda conoscenza che si riassume in un atteggiamento, tipico delle popolazioni australiane, impostato sulla leggerezza : "il progetto è “un gioco di scacchi”, sostiene Glenn Murcutt. La serenità della leggerezza è il fine di ogni partita" .
La leggerezza, all'opposto della pesantezza - la cultura della "grotta" che ha prodotto architetture basate su principi di stabilità e solidità, luoghi circoscritti e protetti dall'esterno, tecnologie che riprendono le ragioni della pietra traducendole in armonie complesse - può essere quindi considerata il mezzo attraverso il quale raggiungere i principi di mobilità e temporaneità che sembrano essere all'origine della logica insediativa propria di quelle terre.
Eppure la leggerezza e la pesantezza non sono valori o principi alternativi, anzi è proprio dal loro confronto che si possono notare le rispettive specificità. Per questo l'uno non esclude totalmente le ragioni dell'altro, cercando di affermare la propria identità attraverso una dialettica costruttiva.
A proposito di tale dualità tra la leggerezza ed il suo opposto è esemplare l'insegnamento di Italo Calvino che, nelle sue "Lezioni americane", invita a riflettere sul mito della Medusa e di Perseo: "In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. [...] L'unico eroe capace di tagliare la testa alla Medusa è Perseo che vola con i sandali alati [...].Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo [...] in un'immagine catturata da uno specchio. Il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario [...]" .
Calvino quindi suggerisce l'ipotesi secondo la quale ognuno dei due atteggiamenti contiene in realtà anche il suo contrario. "Nei momenti in cui il regno dell'umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell'irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica" .
Si può, in tal senso, affermare che quello attuato da Murcutt è "semplicemente" un rovesciamento dell'approccio nei confronti della definizione dello spazio. Questo prende forma tenendo conto di molteplici suggestioni contemporaneamente che fanno capo alla cultura architettonica o semplicemente all'osservazione delle tradizioni, senza perdere però di vista il fine della lievità inteso come caratteristica essenziale dell'essere. Egli infatti è capace di travasare nella sua architettura, come già notato perfettamente dai critici che hanno letto la sua opera, tutte le suggestioni della grande tradizione dell'architettura moderna, da Mies van de Rohe a Chareau, dall'architettura finlandese alle influenze della figura di Utzon a Sydney, senza tuttavia rinunciare a tradurre tali radici in un originale linguaggio compositivo, secondo l'ideale lecorbusierano , per il quale soltanto l'architetto può stabilire un equilibrio tra l'uomo e l'ambiente.
Le architetture di Murcutt quindi non si pongono come "monumenti" del nostro tempo, non cercano cioè di dare risposte certe e definitive. La loro ragion d'essere risiede prevalentemente nel consentire - come una macchina utile appunto - all'uomo di svolgere le proprie attività attraverso un soddisfacimento dei bisogni non solo fisici e materiali ma soprattutto afferenti alla sua sfera interiore. Gli spazi conseguentemente sono disegnati a partire dall'uomo, dalle parti a lui più vicine, e l'interno diviene la ragione stessa della forma architettonica. In Murcutt infatti è possibile parlare di "interiorità" dell'architettura e non solamente di "internità", termine che in realtà definisce semplicemente un luogo, un'aspetto dell'architettura. "Interiorità" invece sottende tutto quanto è pertinente all'interno di un ambito spazialmente, o anche solo idealmente, circoscritto con diretto riferimento allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo.
Sotto le coperture delle abitazioni progettate dall'architetto australiano, leggere come tende gonfiate dal vento, lo spazio è tagliato solitamente tra un margine pieno, un muro memoria di un recinto, ed uno più trasparente, nel rispetto certo dell'orientamento, ma anche secondo il principio della compresenza di un segno più forte che separa l'interno dall'esterno ed uno che, anche se solo sul piano visivo, riporta la natura dentro il perimetro della casa. La copertura - il tetto - gioca un ruolo fondamentale in quanto elemento che riesce a definire un luogo con un proprio carattere nella continuità dello spazio naturale. "Il tetto dichiara immediatamente la propria ragion d'essere: esso mette al coperto l'uomo che teme la pioggia ed il sole" . Esso ispira un senso di protezione in modo così netto che il territorio al di sotto risulta distinto dall'intorno anche se non direttamente perimetrato: "i valori di riparo sono talmente semplici, così profondamente radicati nell'inconscio, che li si ritrova piuttosto evocandoli che minuziosamente descrivendoli" .
Gli ambienti disposti sotto le coperture da Murcutt, ordinati in sequenza longitudinale tra un pieno ed un vuoto, e separati, come notato dalla Fromonot , in spazi serviti e serventi, trovano la loro specificità nel non essere statici bensì dinamici. Le case dell'architetto australiano infatti non suggeriscono la stasi, non individuano un luogo privilegiato ragione ultima dello spazio interno (vedi ad esempio il focolare nelle praire houses secondo lo spirito wrightiano), bensì definiscono un camminamento idealmente senza soluzione di continuità tra l'interno e l'esterno. Il percorso servente di Murcutt infatti non è semplicemente un disimpegno svolto nel senso longitudinale della casa, esso all'inizio e alla fine è pressoché sempre messo in relazione con l'esterno, è realmente l'ideale prosecuzione di un viaggio che viene da lontano e che non termina nello spazio domestico predisposto dall'architetto. L'importanza di tale sistema distributivo, certamente più rituale che effettivamente funzionale, è rimarcata dal fatto che esso non coincide quasi mai con il punto di accesso alla casa. Secondo una tradizione abitativa consolidata in Australia, prima con le abitazioni primordiali aborigene e poi con l'introduzione del modello della casa coloniale inglese, anche nelle residenze di Murcutt, l'ingresso avviene prevalentemente dal lato lungo della casa, in maniera brusca, direttamente nel cuore dell'abitazione. Il lungo corridoio quindi, ortogonale a tale direzione di accesso, nel distribuire ordinatamente le funzioni disposte in sequenza lineare, ha il ruolo di riprodurre nel microcosmo domestico costruito dall'uomo, la sua abitudine a conoscere il territorio percorrendolo. L'idea che l'uomo cerchi di riproporre con il suo spazio domestico le regole ed i sensi del mondo che lo circonda così come egli lo percepisce e secondo il grado di conoscenza che ha saputo raggiungere è descritto da G. Semper che scrive: "L'uomo è circondato da un mondo pieno di meraviglie e di forze la cui legge egli intuisce senza riuscire a decifrarla del tutto. Un'armonia di cui gli giungono solo accordi staccati e che mantiene il suo spirito insoddisfatto in uno stato di continua tensione. Allora, egli evoca come per incanto quella irraggiungibile perfezione, si costruisce un mondo in miniatura in cui manifesta la legge cosmica, un mondo che, sia pur nella sua estrema piccolezza, è in sé concluso e in tal senso perfetto. In questo gioco l'uomo soddisfa il suo istinto cosmogonico" .
Così la casa non è un luogo definitivo, che è poi un altro attributo della leggerezza insediativa, ma è un momento, un episodio della vita dell'uomo.
Da questo punto di vista la struttura spaziale della casa non può essere assimilata a nessun altro esempio rintracciabile nell'architettura occidentale. Sia la tradizione abitativa mediterranea, che quella nord europea, che quella nord americana, affermano con la casa il principio della vita domestica - costruiscono cioè un luogo che è altro dalla natura esterna - le dimore realizzate da Murcutt invece, divengono la materializzazione di un sogno arcaico in cui la consapevolezza del singolo essere nasce dalla conoscenza e dalla consonanza con tutto l'ambiente.
Le case di Murcutt quindi non possono essere lette secondo uno schema logico - dall'accesso ai luoghi per accogliere e raccogliersi - che vede, nell'abbandono progressivo dell'esterno verso una serie di luoghi interni più privati, la logica distribuzione degli spazi, ma piuttosto esse appaiono la conseguenza di un principio di fluidità tra gli ambienti che prevedono tutti sia un opportuno grado di coinvolgimento con l'esterno che di privacy. Il diagramma alle quali può essere assimilata la fruizione dell'organizzazione spaziale di tali residenze è quello di un movimento che, guidato dall'esterno verso un luogo di mediazione - la veranda -, consente di accedere all'interno attraverso un diaframma leggero e semi trasparente, per essere condotti lungo un margine più denso e opaco contro il quale si scivola verso i diversi luoghi della casa da ognuno dei quali, però, si torna ad essere in rapporto diretto, o anche solo percettivo, con l'esterno da cui si è giunti. Questo movimento ad "onda" sfrutta la direzionalità del percorso esterno da cui si arriva - spesso segnato sulla natura - e la capacità distributiva del corridoio longitudinale di servizio agli ambienti, ma soprattutto coinvolge un luogo centrale dell'abitazione che rappresenta forse la nota più caratteristica delle case di Murcutt. Questo ambiente è composto da diversi ambiti caratteristici indipendenti - la veranda, il soggiorno, la zona camino, il pranzo - è a cavallo tra l'interno e l'esterno, a ridosso della cucina e di un nucleo di servizi, tangente solitamente al percorso longitudinale; esso individua, per così dire, l'ambiente giorno distinto dalla zona notte e da eventuali luoghi diversi come il garage o lo studio, e non ha mai una disposizione fissa e ripetuta. Tale insieme di ambiti spaziali, cioè, non corrisponde formalmente ad una tipologia ricorrente ma rappresenta piuttosto un luogo significante che conforma, a seconda delle occasioni, le case che si adattano alle esigenze del sito, del clima e alle richieste dei committenti.
Elementi fondamentali di tale ambiente sono la veranda, l'accesso e il camino: è infatti il modo di disporre questi tre particolari eventi dello spazio che distingue una casa da un altra. La veranda entra nella tradizione abitativa australiana attraverso "modelli domestici che non sono stati modificati in profondità per adattarsi ai rigori particolari degli antipodi, ma acclimatati sommariamente con aggiunte di pensiline e verande sulle facciate: le case australiane del secolo scorso non differiscono fondamentalmente dai cottage americani della Virginia che risalgono alla stessa epoca. Elemento coloniale universale, favorito dagli inglesi dopo la loro conquista delle Indie, la veranda non è tipica dell'Australia, ma si è generalmente diffusa per necessità sotto diverse forme" . A differenza però della casa coloniale, nelle case di Murcutt essa non coincide sempre anche con l'ingresso, anzi spesso l'accesso è diametralmente opposto a tale spazio di relazione con l'esterno che, a seconda dei casi, diviene ora un vero e proprio patio, ora una terrazza verso il panorama, ora un soggiorno a cielo aperto. Analogamente il camino, pur essendo un elemento fondamentale, non assume quel ruolo dominante dello spazio giorno e diviene elemento di separazione e di aggregazione. Ora è tangente al percorso, ora separa dalla zona pranzo, ora si inserisce nel margine che perimetra la casa.
Lo spazio è allestito in modo semplice ed essenziale. Gli oggetti destinati ad entrare in diretto contatto con l'uomo sono ispirati, al pari di tutto il manufatto architettonico, ad un principio di indispensabilità e omogeneità. Arredare infatti non è un'operazione di semplice attrezzaggio della casa, svolgere tale attività significa dotare di cose utili e necessarie  gli ambienti che altrimenti sarebbero esautorati dal loro compito principale. Gli arredi predisposti dall'architetto australiano pertanto svolgono perfettamente questo compito, non perseguono ragioni diverse da quelle che soggiaccione all'intera opera architettonica, ponendosi come parti integranti ed integrate al senso della dimora.
Come detto quindi tali ambienti non vanno considerati singolarmente ma nel rapporto muto che instaurano tra loro. Tali differenti conformazioni però non contraddicono uno spirito comune che è quello di distinguere, nel movimento e nel dinamismo generale un luogo di sosta, un piccolo riparo in cui fermarsi, capace però di racchiudere in sé tutte le problematiche del rapporto più complesso con la natura. Tali spazi si predispongono ad un momento di calma ma non spezzano e non alterano il sentimento di partecipazione con l'intorno. Anzi dall'interno si possono percepire frammenti dell'esterno che non sono più semplicemente "naturali" ma sono piuttosto la lettura che l'architetto predispone di tali luoghi. La lettura "filtrata" della natura rappresenta la consapevolezza dell'uomo contemporaneo che tale rapporto con la propria terra non è più semplicemente istintiva ma è anche frutto della cultura sedimentata nel tempo, della tradizione propria di una popolazione.
Ecco quindi che le case di Murcutt sono infine "macchine" anche da questo punto di vista, strumenti sofisticati per leggere il movimento del sole e delle stelle, meccanismi che rappresentano il grado di consapevolezza dell'uomo dei fenomeni naturali. Esse non sono più costruite con parti della natura come le capanne aborigene, ma come quelle raccontano la capacità dell'uomo di confrontarsi, in maniera cosciente, con la propria abilità a modificare e trasformare i luoghi in cui passa, dando pertanto un senso alle tracce che, necessariamente, egli lascia nel suo cammino, testimonianze del suo essere nel mondo.

Sentire la tradizione


Il termine tradizione - in architettura - è spesso usato come opposto di moderno: come tradizionali sono indicate le espressioni tese a rappresentare la permanenza dei valori del passato mentre "moderni" sono valutati quei momenti rivolti ad una sostanziale rifondazione dei principi della forma costruita.
Eppure il termine tradizione deriva da traditio che significa "consegna", "insegnamento", "narrazione" e che - in particolare nella sua accezione di "consegna" - implica il passaggio di un insieme di dati culturali da un antecedente ad un conseguente attraverso un processo di conservazione e innovazione nel quale si realizzano, in modi diversamente tematizzati, le molteplici possibilità di inserimento del passato nel presente . Il contenuto intrinseco di "movimento" che è implicito nel concetto di tradizione fa si che immediatamente si debba sgombrare il campo dal preconcetto che tale parola stia a significare qualcosa di stabile e di remoto, qualcosa di lontano nel tempo, inamovibile e quindi già "passato". L'essere invece un humus culturale in continuo mutamento ed evoluzione implica che i principi che informano le radici tradizionali di un paese permangano vive in tutti i suoi aspetti nel presente e che guardare a tale coacervo di informazioni genetiche della propria cultura non comporti un retrogrado ripescaggio di fenomeni "spenti" nella loro carica propositiva, che hanno fatto il loro tempo, bensì significhi progettare il futuro sulla base di una conoscenza complessa e stratificata.
«Non v'è società senza tradizioni: non v'è società nella quale i contenuti culturali e strutturali che ne caratterizzano le dinamiche storiche non si manifestino come l'intersezione perennemente mutevole fra un patrimonio consegnato dal passato e le costanti esigenze di innovazioni insorgenti a tutti i livelli della vita collettiva. In generale le rivoluzioni tendono ad estirpare comportamenti, valori, simboli che ostacolano il dispiegarsi, non di rado traumatico, dei mutamenti che ad esse fanno capo» .
Il concetto di "rivoluzione" pertanto diviene la chiave di lettura, per contrapposizione, per comprendere a fondo il ruolo della tradizione: per rivoluzione infatti si intendono gli stravolgimenti che mutano radicalmente l'andamento della storia di un dato aspetto della società. Rivoluzione è stata definita la svolta operata dal Movimento Moderno in architettura rispetto al clima culturale in cui parte della ricerca sembrava - e sottolinerei sembrava - essersi fermata su preziosismi linguistici provenienti dal passato. Ma il valore della rivoluzione - che pur esiste ed è dirompente - non è mai quello di tagliare completamente i ponti con la storia precedente, di annullare cioè ogni memoria; anzi qualsiasi momento rivoluzionario, nella pur apparente "rottura" con il contesto in cui viene attuata, opera delle scelte ben precise, seleziona quanto deve essere rinnovato rispetto a tutto quello che, rivalutato e rinvigorito nei contenuti, diviene il punto di partenza effettivo per la fondazione del nuovo. «Una rivoluzione assoluta non è mai avvenuta nella storia, [...] va sottolineato il rischio di straniamento collettivo cui darebbe luogo un processo di radicale mutamento socioculturale che tagliasse i ponti col passato a tutti i livelli [...] ciò equivarrebbe ad una sorta di morte culturale. Anzi le tradizioni rappresentano le uniche fonti di autoriconoscimento collettivo» .
Una rivoluzione quindi opera delle "scelte", seleziona, all'interno del ricco magma culturale rappresentato dal portato della tradizione, i fondamenti su cui sostanziarsi, riconoscendo un rapporto di continuità tra le aspirazioni di un processo in costante sviluppo e l'interpretazione della propria memoria storica. L'insieme dei contenuti tradizionali infatti non è oggettivamente interpretabile: se gli esiti formali diventano talvolta semplici schemi ripetitivi a cui affidarsi con la certezza di un consenso generale, i significati invece sono di volta in volta soggetti alla capacità interpretativa di chi opera la trasposizione temporale - la rivitalizzazione - di tali espressioni.
«La tradizione dunque, al pari del linguaggio, si presenta come una particolare istituzione su cui la società - ogni società - scorre anche quando pone in atto i processi innovatori più radicali. Essa infatti, per chi la vive dall'interno, costituisce sovente un dato di natura, un limite costitutivo dell'esistenza umana al di sotto del quale non v'è possibilità di sopravvivenza culturale. [...] La tradizione si configura come il ripercorrimento di un cammino già tracciato, come riattualizzazione di un archetipo o di un evento che, in ogni caso, trova nel passato il primo atto e in esso la sua legittimazione» .
In tal modo non esisterebbe più alcuna dualità tra passato e presente ma, nel fluire continuo dei fenomeni culturali di un popolo, ora più organicamente legati uno all'altro, ora in un alternarsi più frammentario e sincopato, ogni espressione, ogni rappresentazione, diventa l'opportuna integrazione tra quanto già costruito nella storia e quanto invece c'è ancora da realizzare, secondo un processo di interpretazione e modificazione.
Pertanto i dati della tradizione non sono mai univocamente definiti, non hanno un valore assoluto, ma nel relazionarsi ogni volta in modo diverso - come le figure rappresentate sui tarocchi - danno origine a nuove vie da percorrere, a nuove combinazioni. «Ora la razionalità del riallacciarsi alla tradizione è certamente "costitutiva dell'atteggiamento storiografico", filosofico, artistico, scientifico, teologico, ma nell'ambito della cultura intesa come comportamento globale una tradizione può sfumare in un'altra, in un gioco di sequenze incrociate, senza che il processo si configuri necessariamente e in modo privilegiato come un atto razionale» .
In architettura la presenza della tradizione può rientrare in aspetti diversi ed eterogenei ed è proprio la scelta di accantonarne alcuni rispetto ad altri che può costruire i momenti di rivoluzione a cui si accennava: la modificazione dei ruoli dei dati appartenenti alla tradizione produce eventi più o meno innovatori.
L'appartenenza e la riconoscibilità di un manufatto architettonico al sistema dei valori consolidati e riconosciuti può essere rintracciato principalmente nelle caratteristiche costruttive e nel portato tecnologico specifico, ovvero nell'uso e nella manipolazione dei materiali da costruzione fino alla definizione dei dettagli prodotti dall'artigianato. In tal senso il linguaggio espresso dall'uso sapiente di tali nozioni tecniche diviene forma dell'architettura e dei suoi singoli componenti tale da offrirsi - il più delle volte - come un repertorio irrinunciabile di esiti formali con i quali sottolineare alcuni sensi della costruzione. Ma quando l'utilizzo istintivo di una parola nota e diffusa comporta che essa venga adoperata per il suo contenuto primario originale anche se, nel tempo, le ragioni che l'hanno prodotta - che l'hanno costruita in quel modo -  sono oramai venute meno, accade che la tradizione sfuma nel vernacolo, in frammenti di linguaggio cioè, ormai stabili il cui significato primo è quello di riprodurre nostalgicamente un ricordo del passato.
Uno delle ragioni principali che spinge l'architettura a guardare la tradizione è la conoscenza e l'interpretazione delle funzioni che nel tempo hanno dato vita ad assetti tipologici e a forme dell'involucro da abitare legati all'uso e al sistema di "messa in scena" degli stessi. La disciplina tipologica, nella sua accezione più avanzata, ha saputo ricostruire il rapporto tra forma dello spazio, uso che se ne fa e condizionamenti psicologici che l'uomo - protagonista ultimo di tali ambiti - subisce e suggerisce ai suoi simili. Per estensione questo stesso concetto informa il modo di confrontarsi del manufatto architettonico con il suo intorno, con il luogo in cui è inserito, che realizza atteggiamenti e possibilità consolidate in base ai condizionamenti stratificati nel tempo nel rapporto tra architettura e natura, tra interpretazione del luogo e costruzione del senso della città .
Sulla base di queste considerazioni quindi va stemperata la presunta dialettica tra moderno e tradizione, dualità che, ad esempio, la critica ha voluto vedere anche nelle opere di Korsmo e Knutsen: Korsmo, costruttore e raffinato ideatore di frammenti di linguaggio chiaramente esemplificativi di tutte le tensioni espresse dall'ala "modernista", in realtà fonda le sue opere su un'attenta - e del tutto personale - reinterpretazione degli impianti abitativi e delle conformazioni spaziali derivate direttamente dagli aspetti più consolidati della tradizione nordica; all'opposto Knutsen, etichettato troppo spesso di essere l'espressione più alta della cultura romantico - tradizionale, pur nell'uso didascalico di tecnologie e materiali noti alle capacità costruttive del suo popolo, rilegge liberamente l'organizzazione dello spazio interno dell'architettura e soprattutto ridefinisce, in chiave organica ed integrata, il rapporto tra artificio e natura, tra natura progettata dall'uomo e natura "naturale".
Volendo quindi ampliare il punto di vista dell'analisi, può essere utile includere, ai fini di una valutazione più oggettiva, anche altri aspetti culturali ed in particolare quelli che, con un disdicevole termine, sono chiamati talvolta "periferici" o "marginali". Le espressioni meno evidenti di un dato fenomeno vengono messe in alcuni casi da parte proprio in quanto sfuggono ad una certa volontà classificatrice della critica. Eppure valutare gli atteggiamenti non prevalenti della cultura di un paese o anche i risultati di quelle nazioni che - da lontano - hanno saputo guardare ai grandi fermenti culturali attraverso lo sguardo condizionato della propria memoria, malgrado le inevitabili contaminazioni e digressioni, significa chiarire alcuni contenuti - e soprattutto oltre alle ragioni proprio le aspettative - di momenti "rivoluzionari" e fortemente propositivi.
In particolare se ci riferiamo a quelle fasi di trasformazione del linguaggio e dei significati dell'architettura  - quali il prepotente avvento del Movimento Moderno rispetto agli stili linguisticamente riconosciuti del passato e, ancor più, agli esiti che successivamente l'onda lunga di tale rivoluzione sociale ha prodotto fin negli anni '40 e '50 -  allontanarsi dagli esempi più eclatanti normalmente riconosciuti come paradigmatici dalla critica architettonica può portare, con minore enfasi ma con più semplicità, alla comprensione di alcuni valori permanenti della cultura architettonica in generale. 
Per supportare tale tesi non ci fermeremo solo sugli esempi norvegesi presi in considerazione, ritenendo interessante predisporre un confronto tra alcune opere di architetti molto lontani tra loro, non solo per la distanza che intercorre geograficamente tra i loro paesi, ma anche per le differenze effettive dell'humus culturale e politico in cui tale opere hanno visto la luce. Eppure, se le differenze sono sostanziali, altrettanto impreviste sono alcune affinità sia all'interno dell'iter progettuale di ogni singolo architetto che nelle opere selezionate.
Accanto quindi all'opera più rappresentativa e discussa dell'architetto norvegese Knut Knutsen , la casa di vacanze a Portør,  desideriamo affiancare in quest'analisi comparata, una interessante realizzazione di Julio Vilamajo' , architetto uruguayano, inserita in un progetto di ampio respiro di lottizzazione di una vasta area, il Ventorillo de la Buena Vista a Villa Serrana, Lavalleja (Uruguay) ed infine la Stazione - Albergo al Lago Nero a Sauze d'Oulx di Carlo Mollino , personaggio discusso dell'architettura italiana proprio per il suo sfuggire a qualsiasi interpretazione definitiva tesa ad ingabbiarne l'incredibile carica innovativa.
Le tre opere scelte presentano, come detto, incredibili affinità ma soprattutto sono accomunate dal fatto di essere state considerate rappresentative di un momento di ritorno alla "tradizione" nel percorso di ricerca dei rispettivi autori. Proprio per questo è nostra intenzione tentare di sfatare il ruolo di "eccezione" che è stato a loro attribuito cercando altresì le ragioni di continuità con l'attenta opera di rifondazione dei significati primi dell'architettura che i loro artefici hanno saputo mettere in essere, confermando quanto siano in realtà labili i confini tra moderno e tradizione.
Non può pertanto sfuggire, tra le similitudini, l'estrema contemporaneità tra le tre opere realizzate tutte alla fine degli anni '40  oltre al fatto che esse, nella storia personale dei rispettivi progettisti, rappresentano un momento particolare della propria ricerca che, con le dovute differenze, per ognuno di loro ha invece spaziato in linguaggi ed espressioni formali tra i più diversi, ora più vicini al gusto dell'epoca, ora decisamente originali.
L'altro parametro che accomuna le opere scelte è l'uso diffuso e programmatico della tecnologia del legno e del linguaggio che ne consegue, ma soprattutto il fatto che questa tecnologia non rappresenta una caratteristica primaria nel percorso progettuale dei tre autori ma solo una delle scelte materiche e strutturali sperimentate a seconda dei casi. Infine, estremamente importante per la comprensione degli esempi presi in esame è il rapporto che queste architetture instaurano con il luogo in cui sono inserite; il rapporto organico, ma non mimetico e assolutamente non di soggezione, con cui interpretano, in modo innovativo, l'inserimento nella natura.

La casa estiva a Portør che Knut Knutsen realizzò nel 1949 per se' stesso è considerata dalla critica, a tutti gli effetti, il suo capolavoro. Essa in realtà rappresenta a fondo solo una parte della poliedrica volontà dell'autore di confrontarsi con materiali, tecnologie e linguaggi. Sfogliando infatti le opere di questo architetto si può notare come, in un costante rigore nei confronti della costruzione, egli non disdegna di sperimentare gli stimoli provenienti dalla cultura - intesa nel senso più ampio del termine - del suo tempo. La piccola casa di vacanza, considerata quasi un omaggio al grave peso della tradizione nordica, contiene in nuce gli stimoli più importanti di parte della sua ricerca sia per quanto riguarda il legame con il passato che per ciò che concerne la volontà innovativa della sua architettura. In essa i principi - soprattutto formali - della casa tradizionale norvegese non vengono dati come immodificabili: sia la volumetria che lo spazio interno, come il rapporto stesso con il sito, risultano essere una libera rilettura dei principi - e non degli esiti - del modello della casa nordica; l'unico contatto diretto si riscontra nel materiale - il legno - che però è usato secondo una messa in opera diversa.
La casa quindi è molto più moderna e rivoluzionaria di quanto voglia in realtà sembrare tradizionale: lo schema spaziale della casa arcaica non è riprodotto pedissequamente e, rispetto allo schema più introverso della stue , la casa di Knutsen propone una serie di spazi in sequenza - ora aperti ora chiusi - relazionati tra loro in maniera diretta e mediati solo dalle caratteristiche formali dell'involucro, dalla luce portata all'interno e dalla sagoma della copertura. In particolare i percorsi si snodano liberi costruendo possibilità distributive originali ed inedite. La casa inoltre si rapporta con la natura esterna raccogliendone i sensi e facendoli propri, rinunciando quindi alla sovrapposizione di uno schema di vita astratto che sia in grado di dare ordine - e quindi una regola - alla natura stessa: anzi la natura suggerisce nuovi modi aggregativi che alterano qualsiasi tipologia dell'abitare precostituita. Così la forma della casa perde il rigore delle matrici più regolari proprie delle fattorie e delle case rurali e diviene l'interpretazione delle logiche costitutive dell'andamento del terreno. La casa è organica a tutti gli effetti, nel senso che, al pari di un organismo naturale, ricerca la propria identità sfruttando al massimo le tracce già presenti nel luogo. L'opera di Knutsen quindi non rappresenta l'arte di costruire tradizionale ma ripropone, con semplicità e naturalezza, alcuni atteggiamenti arcaici propri di quelle genti che a suo tempo quei modelli hanno prodotto. Egli non si rifà a forme o schemi della tradizione ma si ripropone - in modo tradizionale - a "sentire" il rapporto con la natura e con la storia degli uomini; atteggiamento questo che, se vogliamo, è la massima espressione dell'essere nordico e che conduce quindi l'architetto a costruire forme e contenuti nuovi, perfettamente in linea però, con l'esperienza del passato. Da alcuni scritti dell'autore inoltre traspare un chiaro elogio dell'individuale - netta opposizione a qualsiasi forma di omologazione - il che, anche in questo caso, corrisponde ad un carattere tipico dello spirito nordico contraddetto solo nella prassi da una eccessiva iterazione di forme e schemi costruttivi dovuti alla schiettezza e riproducibilità delle scelte compositive operate nel tempo.

Il Ventorillo de la Buena Vista rappresenta l'ultima realizzazione di Julio Vilamajo', di una decina di anni più vecchio di Knutsen, e quindi assume il ruolo di una sorta di messaggio  finale del maestro uruguayano. L'opera quindi, a differenza della casa per se' stesso del maestro nordico, non può essere relazionata ad un prima ed un dopo nell'arco della produzione dell'architetto e diviene un inquietante oggetto con cui confrontarsi senza alcun preciso riferimento. Nella ricca produzione di Vilamajo' infatti il Ventorillo si stacca nettamente dalle opere precedenti che procedono di pari passo con le complesse vicende dell'architettura sudamericana: è proprio il rapporto con la tradizione e la storia che diventa la chiave di lettura dell'opera del maestro di Montevideo. L'Uruguay è uno Stato estremamente giovane la cui breve storia si confonde con la memoria di tutte le popolazioni che sono all'origine delle immigrazioni che hanno costruito il paese. Pertanto, non esistendo direttamente una lunga storia culturale a cui guardare, la ricerca dei sensi delle radici e delle origini, proprio nel tentativo, in questo caso, di costruire i lineamenti di una tradizione plausibile,  diviene il nocciolo del problema.
Vilamajo' quindi tra l'aspetto più duro del Movimento Moderno, che influenza fortemente la produzione architettonica di quegli anni, e il regionalismo più radicale teso a definire una architettura vernacolare, propone come risposta un principio di "autenticità" a cui guardare con sicurezza . Autenticità che significa legare ogni gesto progettuale ad una ragione ben precisa, infondendo in esso un senso - un significato - determinante.
Negli anni in cui la cultura uruguayana inizia un vertiginoso processo di integrazione regionale, l'architettura guarda con maggior rispetto alla natura, ai suoi valori culturali, al suo immaginario e patrimonio collettivo. E' a tutti gli effetti un confronto tra le popolazioni indigene e quelle immigrate ormai non più legate ai luoghi di origine. Dopo numerose architetture a carattere urbano che danno una immagine riconoscibile alla capitale uruguayana Vilamajo', in un momento in cui i linguaggi trasformano l'aspetto delle città e offrono una nuova identità del territorio, indirizza la propria ricerca verso l'integrazione con il paesaggio naturale ancora estremamente presente e invita ad una riflessione sul significato tra uomo e natura che travalica i limiti del proprio contesto storico e diviene "senza tempo".
Egli per il Ventorillo quindi propone un linguaggio semplice - rintracciabile a tutte le scale dell'oggetto architettonico - che, in un paese alla ricerca di una propria identità culturale ma che contemporaneamente mira a far parte di un contesto culturale più ampio e generalizzato, diviene la soluzione semplice in cui riconoscere il passato (mitico più che reale) e i contenuti del futuro.
Egli propone infatti una architettura che si basa sui principi geografici ed ecologici della costruzione architettonica, materiali e procedimenti costruttivi locali, elevando il tutto a opera d'arte completa. Non esistono riferimenti diretti a casi simili, ma il linguaggio proposto dall'architetto riesce ad evocare, nella forma e nei dettagli, le rudimentali costruzioni rurali della regione. Egli adopera i tronchi in legno di eucalipto appena sbozzati riportando su di essi decorazioni non direttamente derivanti dalla tradizione architettonica ma da quella artigianale e pittorica in generale. Il tono dell'opera appare noto, consueto, eppure nelle forme ipotizza un sistema di uso dello spazio del tutto moderno integrando con pochi segni e grande semplicità, i percorsi agli spazi, relazionando interno ed esterno attraverso la conquista - sia percettiva che fisica - della natura circostante. Anche qui il rapporto con il sito è del tipo organico anche se in modo del tutto diverso dalla casa di Knutsen. La volontà di partecipare alla costruzione di un racconto unitario con tutte le parti del luogo non avviene attraverso modi che evocano le forze della natura (la casa di Knutsen si raccoglie tra le rocce sferzate dal vento al pari dei cespugli e degli stessi animali) ma attraverso le regole che informano i comportamenti della natura stessa seppur con forme e ragioni autonome. Il Ventorillo svetta sul crinale della collina e afferma la sua presenza sottolineando un carattere proprio al pari degli alberi, degli arbusti e delle rocce. Le tensioni che regolano il delicato equilibrio grazie alle quali riesce a sporgersi nel vuoto diventano forma e significato dello spazio interno fortemente caratterizzato dalla struttura lasciata a vista.

Programmatico è invece il rapporto con la tradizione nell'opera di Carlo Mollino anche se tale approfondimento, che infonde, sotto molti aspetti, praticamente tutte le sue realizzazioni, risulta più evidente nelle architetture montane, in quelle realizzazioni cioè che si trovano a dover fare direttamente i conti con una forte permanenza di linguaggi tradizionali. Estremamente raffinato ed astratto - e mai puramente idealizzato - è il rapporto di Mollino con quelle architetture e con quell'artigianato dei dettagli costruttivi che già negli anni '30 divengono per lui oggetto di ricerca e di rilievo. L'atteggiamento dell'architetto torinese va pertanto visto in relazione al dibattito che in quegli anni, con Albini e Pagano, si andava formando proprio intorno al valore estetico del segno riconoscibile - dello stile - in architettura. Le opere di Mollino intervengono in tale clima culturale lasciando trasparire una certa «insofferenza per un'integrazione, che tarda a venire, tra l'elemento stilistico assunto come dato, e talora come citazione, e una volontà di rompere e riassestare i nessi abituali di quella sintassi tipica. Appare cioè il tormento di una scomposizione degli spazi, di una disseminazione, lungo l'infinito bianco del foglio da disegno, di segni assunti quasi per l'autonomo valore semantico dei loro universi figurativi» . Egli stesso infatti dirà che la tradizione è un vero e proprio "tradimento" in quanto la continua trasformazione e interpretazione delle forme primordiali rompono l'originario rapporto di causa ed effetto che è alla radice della conformazione di tali forme e pertanto il ricorso a elementi riconoscibili appartenenti al lessico vernacolare diviene una vana esercitazione di sentimentalismo nostalgico .
Non a caso se un personaggio come «Albini cerca di chiarire il rapporto tra essenza tipologica e rispetto ambientale [...] muovendosi in un filone di attualizzazione della tradizione di cui cerca di cogliere i motivi di validità e cambiamento [...], Mollino al suo confronto irrompe nella tradizione con una violenza sconosciuta al collega milanese»  senza alcuna velleità populistica o moralistica e tantomeno senza la pretesa di rintracciare in tale operazione una qualsivoglia indicazione di metodo progettuale. La «lettura irrispettosa della storia»  che Mollino opera non è pertanto legata ad un filone culturale attento all'uso della memoria come chiave interpretativa del passato, ma diviene la personale riflessione - se vogliamo anche intellettualmente distaccata - sulle ragioni di tutte le suggestioni che una personalità sensibile è in grado di percepire dalle opere e dalle tracce della storia. La citazione diviene quindi esaltata e finalizzata alla costruzione di un nuovo organismo in se' concluso partecipe di fenomeni più ampi ma chiaramente attento alla affermazione di una propria identità. Ad una lettura attenta si può comprendere quindi come la Stazione Albergo al Lago Nero del 1946/47, apparentemente così vicina alla tipologia delle architetture montane, in realtà ne stravolga le regole compositive e proporzionali: il linguaggio del legno e della pietra viene ibridato con materiali "nuovi", come ad esempio il calcestruzzo che consente forme inedite. Analogamente l'andamento delle coperture viene reinventato suggerendo un'ipotesi improbabile di instabilità dell'oggetto, apparentemente teso più che a relazionarsi con il suolo, a spiccare, da un momento all'altro, il volo. Eppure lo sforzo evidente di "contestualizzare" l'oggetto fa si che - al di fuori di qualsiasi sterile dibattito sul regionalismo - la sua architettura sia spiccatamente moderna pur cercando un "confronto", più che un dialogo, con le memorie del luogo. Mollino è stato per la critica certamente un personaggio "difficile" da definire ed "inquadrare", così tanto almeno quanto sono chiare le sue architetture nell'esprimere con semplicità la consapevolezza del suo artefice di tutti i parametri partecipanti alla nascita della forma dell'architettura. La cultura del maestro torinese si stempera nell'organica coerenza del manufatto finito che diviene, per tutti, un chiaro oggetto da usare, un luogo - riconoscibile - idoneo allo svolgimento della funzione a cui è destinato. Riconoscibilità che naturalmente non significa "mimesi" così come coerenza non implica necessariamente "unità di linguaggio".

A voler rintracciare quindi, in conclusione, un comune denominatore all'opera dei tre architetti presentati - i quali è pressoché certo non hanno avuto alcun contatto diretto tra loro - non può essere taciuto quanto quel periodo storico sia stato condizionato dalla presenza di Frank Lloyd Wright. Il futuro dell'architettura immaginato da Wright si confrontava, direttamente o indirettamente, con le proposizioni stilistiche del funzionalismo e del razionalismo; la necessità di una coscienza nazionale propugnata trovava grande eco in molte culture alla ricerca di una propria identità e specifica individualità.
Questo conferma quanto già detto: al di là della paternità diretta dei fenomeni culturali, contano più gli esiti, le opere realizzate che lasciano un segno reale ed indelebile. La diffusione quindi di messaggi, anche se raccolti molto dopo ed in luoghi lontani ed eterogenei, mette in ogni caso in movimento  scelte e ricerche originali e specifiche. Queste stesse ridanno a loro volta vigore e valore alle proposizioni originarie che così, cariche di nuove valenze, tornano a riflettere ulteriori possibilità operative. L'eco di tali movimenti del pensiero giunge quindi fino alle generazioni attuali che, come in un caotico zapping tra i momenti più disparati della storia, cercano di ricostruire un filo logico in cui leggere ipotesi costruttive del proprio futuro. Non c'è quindi necessità di schierarsi - essere nella tradizione o rifondare il moderno - in quanto, quel che appare come un contenuto principale, è operare scelte idonee al proprio tempo, espressione della propria cultura, sulla base di quella che possiamo semplicemente chiamare coscienza viva e partecipe di quello che è già stato, sulla conoscenza quindi di tutte le manifestazioni e aspettative dell'uomo.
«Per coltivare la bellezza nella propria società il cittadino deve cominciare ad intendere la vita come poesia, a studiare il principio poetico e a prenderlo a sua guida, consigliere ed amico. Dall'interno di questa filosofia della libertà fondamentale, ogni disordine è smascherato. [...] La forza rende presto vane le scoperte di nuovi mezzi esteriori, [...] la forza riduce il "progresso" a una questione di pura "invenzione", a forme interiori di scienza [...]. La vita può essere redenta, resa più nobile, solo da un pensiero e da un sentire veramente grandi, in ogni arte nostra, e nel netto rifiuto di tutte le manifestazioni di insania, destituite di spiritualità, che abbiamo chiamato per tanto tempo tradizione. La nostra cultura non si manifesta ormai attraverso nient'altro che uno "stile" fondato sul gusto. Pericoloso perché il "gusto" (sia vecchio che nuovo) è fondamentalmente figlio dell'ignoranza, e raramente, e solo per avventura, va d'accordo con la conoscenza del principio poetico. Occorre conoscenza; non gusto» .

traversate, traversie, attraversamenti


L’incontro con una architettura può richiedere alle volte un tempo lungo fatto di piccoli avvicinamenti successivi, occasioni perse o rimandate che incrementano il desiderio della visita, esaltano le emozioni derivate dallo studio sui libri creando aspettative che, in definitiva, in taluni casi, possono andare anche oltre le reali potenzialità dell’oggetto del desiderio. Casa Curutchet invece, proprio per essere lasciata dalla critica leggermente in secondo piano, offre, a chi ha la fortuna di visitarla, suggestioni ed emozioni comparabili con le opere più celebrate. Gli appunti di viaggio che seguono sono la registrazione dell'esperienza vissuta da chi scrive che, in fin dei conti, non può essere scissa dalle memorie del viaggio, dagli accadimenti e dalle vicissitudini cioè che apartengono al vissuto del singolo.
La visita a La Plata infatti viene a collocarsi dopo dieci giorni di permanenza in Uruguay, dopo avere cioè smaltito abbondantemente la fatica e lo spaesamento del lungo spostamento, della traversata oceanica, ed essersi calati nei ritmi, nei suoni e nei sapori della vita del posto. Il viaggio pertanto non è quello che dall’Italia porta fino all’altro capo del pianeta, ma uno più breve, quello che copre semplicemente la distanza da Montevideo a Buenos Aires e da qui a La Plata. E’ un viaggio in un quotidiano ormai acquisito, dove le lievi differenze vengono apprezzate fin nelle più piccole sfumature. La traversata dell’immenso Rio de la Plata, l’arrivo nella cosmopolita capitale argentina, il percorso in metropolitana - un metrò che sembra appena uscito da un film muto in bianco e nero - la partenza da una stazione periferica di Buenos Aires ancora carica di odori e colori di locomotive a vapore, il tragitto in un incredibile treno per pendolari che viaggia a passo d’uomo con le porte aperte, l’attraversamento dell’immensa periferia  che circonda la città, la sosta in una antica stazione di inizio secolo che finalmente segna l’arrivo nella scacchiera ordinata e ossessiva di La Plata.
Tutto questo tempo permette di porsi, non senza un certo timore, dubbi e domande sull'effetto e l'emozione che restituirà un’opera di Le Corbusier in un contesto diverso da quello europeo, se saprà dialogare con il tessuto di recente fondazione composto però dagli stili più disparati, dall’eclettismo ridondante ad un modernismo pieno di suggestioni decò, se questa piccola casa riuscirà ad affermare le speranze del maestro, se cioè i contenuti saranno in grado di comunicare più della semplice forma ormai chiusa in un codice linguistico noto e consueto. Tali dubbi scandiscono il tragitto a piedi, caratterizzato dai numeri progressivi che identificano le strade (una città fatta di numeri e non di nomi per noi europei resta pur sempre una cosa strana) che dalla stazione conduce al luogo dove sorge la casa. Nella mente un ultimo ripasso alle date, a come cioè questa casa della fine degli anni '40 sia così lontana dalle più celebrate esperienze degli anni '20 e '30 e sia in realtà coeva con le opere più mature di Le Corbusier, opere che hanno spiazzato la critica e che ancora oggi rappresentano un testamento inquietante nel panorama dell'architettura moderna. All'improvviso, in una delle cortine continue della città, dove ardite soluzioni stilistiche non riescono a riscattare l'unicità del singolo intervento rispetto al contesto, uno squarcio improvviso, quasi un'assenza della consistenza materica su cui si fonda la città, non solo attira lo sguardo, ma assorbe e cattura lo spazio urbano, impossessandosene.
La piccola casa infatti mostra subito il suo carattere e le sue intenzioni: interiorizzare la complessità urbana nel modesto recinto delle mura domestiche e proiettare, al contempo, i contenuti dello spazio privato sui margini che delimitano l'ambiente collettivo. Essa costruisce pertanto delicati equilibri tra la necessità della privacy del singolo e la partecipazione alla costruzione dell'immagine urbana, idea che appartiene anche al sogno ipotizzato dal maestro con la Ville Radieuse, e che egli intende riproporre anche all'interno della composizione di una semplice abitazione unifamiliare.
Il linguaggio, riconoscibile eppure così spurio rispetto l'applicazione ortodossa di opere più famose, non rappresenta il contenuto principale di quest'opera che invece, nella sapiente e mai eccessiva articolazione dei percorsi a sostegno della distribuzione dei luoghi destinati alle attività, individua un'ipotesi di costruzione dello spazio domestico estremamente avanzata e matura. Anche le opere più riuscite di coloro che si sono saputi ispirare all'insegnamento del maestro svizzero non sono state capaci, fino agli esempi più recenti, di eguagliare la sobrietà del gesto e la misura delle soluzioni compositive presenti in questa piccola opera. Il senso dell'attraversamento, del coinvolgimento, si stempera e si riduce a partire dall'esterno verso l'interno: dall'emozione della lunga e lenta rampa posta in uno spazio che non è più l'esterno ma non è ancora l'interno, il fruitore viene condotto nella scatola vetrata della hall di ingresso dalla quale può rileggere per intero il tragitto percorso e imboccare la più contenuta scala che con semplici rampanti che si susseguono ordinatamente nel fondo del lotto, distribuisce ai piani superiori, fino a giungere all'ultimo livello, quello delle camere più private, dove pareti curve definiscono percorsi che pulsano sotto l'effetto della luce naturale, ora invitando, ora respingendo verso i luoghi prestabiliti. Tale costruzione del percorso che unisce con gradi di privatezza diversi le parti della casa, rappresenta il vero senso di questa opera che, nella terrazza del primo livello, un vero e proprio piccolo giardino pensile, trova la sua sintesi più coerente in quanto spazio destinato all'uso privato ma partecipe di una complessità che è sia quella dello spazio domestico che quella, percepibile, della città che si dispone alla vista attraverso il bris-soleil.
La visita alla casa, condivisa con amici, studenti e studiosi, fa si che il viaggio di ritorno, pur se del tutto simile al precedente, si carichi di nuove suggestioni, ed in particolare del sogno di un uomo a suo modo unico, quelle cioè che talvolta principi universali e universalizzabili possono rendere più leggibili fenomeni particolari e regionali. La capacità del maestro infatti risiede proprio nell'avere suggerito non uno stile internazionale, ma un'architettura basata su principi appartenente alle esigenze più profonde dell'uomo che non sono pertanto legate alle particolari declinazioni della sua cultura ma piuttosto alle invarianti del suo essere: le sue emozioni e le sue aspettative.
Tale modo di operare riesce incredibilmente a porsi come catalizzatore, nello medesimo momento, di istanze generali e di tradizioni locali.
Il viaggio diviene pertanto una semplice tappa di un percorso più lungo privo di frontiere culturali, sociali o politiche, afferente all'uomo e pertanto parte di un viaggio dentro le cose che compongono la sua vita.