cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

16 marzo 2011

Preesistente, esistente, persistente



L'Architettura è un cristallo;
come il cristallo, è una cosa pura ma fissata alla terra,
immersa un pò in essa, sorgente da essa.
Ha radici.

Giò Ponti, Amate l’architettura, Genova, 1957





L’architettura è una cosa, è un oggetto, è qualcosa di fisicamente presente nello spazio vitale di ogni giorno, è tangibile, misurabile, confrontabile. Come scriveva Giò Pontii, l’architettura è una cosa inscindibilmente legata alla terra, immersa in parte nel suolo, è qualcosa di pesante e stabile, dotata di salde radici. L’architettura quindi è, cioè esiste tra gli uomini.
Per definizione “esistere” significa “essere in realtà, essere reperibile, vivere”. Ciò che esiste è una “realtà sperimentabile” e l’architettura realizza infatti una condizione esperibile fisicamente dall’uomo. Da ciò si può affermare che l’architettura è una “cosa che vive”, che ha cioè uno sviluppo caratterizzato da modificazioni e trasformazioni, parallelo alla vita della natura, dell’uomo e delle altre “cose” che lo circondano caratterizzandone l’esistenza.
Ciò che esiste instaura un legame con il tempo, la sua vita si misura e la sua età  la sua giovinezza o anzianità  è legata al parametro della durata media della sua esistenza. Da questo punto di vista, l’età di un’architettura, se calcolabile in anni secondo il metro che regola la vita dell’uomo, non ha un riferimento oggettivo. L’attualità o l’obsolescenza di un’architettura non è vincolata semplicemente al numero di anni trascorsi dalla sua costruzione, quanto piuttosto ad un giudizio di valore e di corrispondenza alle esigenze e alle richieste prestazionali che l’uomo ripone nei suoi confronti, nella possibilità cioè di usare e fruire in modo adeguato la sua spazialità interna.
La parte fruibile per eccellenza dell’architettura è, infatti, il suo interno, è lo spazio che essa contiene e delimita. La cosa-architettura costruisce un vuoto-spazio che è, in fondo, la sua vera “ragione d’essere”, il “significato” stesso dell’architettura secondo la definizione semiologica data da Renato De Fuscoii. Tale significato è l’interpretazione e la proposta che l’architettura fa del proprio periodo storico, è l’espressione realizzata e compiuta delle aspettative e della cultura della società. Da questo punto di vista il legame con il tempo è fondamentale in quanto, al pari del giudizio estetico, il significato espresso dalla forma costruita dell’architettura appartiene all’epoca in cui viene espresso.
Un manufatto con pochi anni di vita può essere estremamente “invecchiato” in quanto non rispondente all’evolversi dei bisogni e allo svolgimento delle funzioni a cui è deputato, così come un edificio, anche se molto datato, può seguire con flessibilità il mutare delle necessità dell’uomo. Certamente il solo dato funzionale non è sufficiente per esprimere un giudizio nei confronti della “durata” di un’architettura, i “contenuti” per cui è stata conformata e il modo con cui essi sono espressi rappresentano un parametro fondamentale. Il racconto dei significati, ed i linguaggi utilizzati per esprimerli, segnano il “carattere” della cosa-architettura che saprà confrontarsi con i valori e il giudizio espressi, nel tempo, dalla società.
Quando i valori funzionali, estetici o comunicativi non corrispondono più a quanto richiesto dalla contemporaneità si riconosce a quell’architettura “un’esistenza appartenente ad un periodo precedente”, per cui essa diviene una “preesistenza”, qualcosa cioè “che ha avuto un’esistenza anteriore”.
L’essere “preesistente” significa, per un manufatto architettonico, avere esaurito la possibilità di svolgere il suo compito tra la gente; la sua fisicità tra le altre cose e le persone diviene un “di più”, la sua presenza è inutile, poiché è terminato il compito che gli era stato affidato e non vive più nel quotidiano, è semplicemente un “ingombro”.
Ne consegue che ciò che è preesistente, privo di un compito attuale, sia esso pratico sia espressivo, se non ha più la possibilità di soddisfare né un bisogno, né un contenuto simbolico, deve essere eliminato per fare “spazio” ad altro, per offrire l’opportunità di essere a nuove cose adeguate alle esigenze dei tempi in corso. Il vecchio, dopo essere abbandonato, non può che essere distrutto e cancellato.
Eppure, anche tra le cose più semplici, escludendo ovviamente tutto ciò che ha un valore e un significato che va oltre i limiti del tempo, c’è chi permane o si ripete, quasi con ostinazione, oltre il consueto. Di queste cose si dice che sono “persistenti”, che “insistono a durare a lungo nel tempo, anche oltre il normale”. Difficilmente manufatti semplici, nati per accompagnare per un breve tratto l’uomo nella sua vita, permangono autonomamente, di solito la loro sopravvivenza è assicurata dall’amorevole cura e dai costanti adeguamenti operati su di essi proprio dall’uomo. La permanenza, la “durata oltre il consueto” di un’architettura nata essenzialmente per dare un’immediata risposta a bisogni elementari, deriva da azioni che vanno oltre l’ovvia manutenzione e consistono invece in interventi di adeguamento, di vera e propria modificazione, alterazioni necessarie all’idonea trasformazione verso le nuove necessità e richieste. Ciò che permane, quindi, della “cosa preesistente” non è più la cosa in sé – che è appunto trasformata – ma il valore riposto in essa che ha fatto nascere la volontà di aggiornare e adeguare i contenuti originari a quelli attuali.
La modificazione, comunemente vista come un’operazione che, nell’alterare l’originale, ne fa perdere il contenuto primitivo, può divenire invece lo strumento per conservare la memoria, per tramandare i dettagli di un racconto di cui si decide di riscrivere in parte la trama. E’ quello che accade ad oggetti e spazi che appartengono “alla tradizione”, che divengono portatori di valori permanenti. Ciò che è tradizionale non è infatti immutabile, non resta cioè uguale a sé stesso, ma si fa veicolo di principi e valori anche a costo di adeguarsi alle tecnologie e ai linguaggi del tempo.
Infatti, il termine “tradizione”, usato per indicare il fluire continuo e ininterrotto nella storia, deriva dal latino traditio che significa “consegna”, “insegnamento”, “narrazione” e che, nella sua accezione di “consegna”, implica il passaggio da un antecedente ad un conseguente attraverso un processo di “conservazione e innovazione” nel quale si realizzano le molteplici possibilità di inserimento del passato nel presenteiii. In particolare il processo di “innovazione”, insito nella tradizione, lascia intendere che ciò che appartiene al passato non sia stabile e inamovibile e che proprio il processo di mutamento ed evoluzione può permettere ai valori originari di permanere nel presente. Ciò che è preesistente può divenire persistente e continuare ad esistere.
Non c’è quindi dualità tra passato e presente, ogni espressione, ogni rappresentazione, all’interno del continuo fluire dei fenomeni culturali, è in grado di divenire uno strumento capace di relazionare quanto già costruito nella storia con quanto, invece, c'è ancora da realizzare, secondo un processo di interpretazione e modificazione.
Chi è deputato direttamente ad operare tali modificazioni, nei confronti di una preesistenza, di qualcosa cioè che risulta estranea al quotidiano, deve riuscire ad individuare gli eventuali valori di cui essa è ancora portatrice per capire dove intervenire e dove praticare l’adeguata trasformazione capace di restituirla all’uso e alla fruizione. Spesso i contenuti estetici ed espressivi dell’involucro, della scatola muraria, riflettendo logiche e forme del passato, restano come icone del tempo mentre lo spazio interno, più legato alle logiche funzionali, è soggetto alle mutazioni e necessita quindi di interventi opportuni capaci di adeguarlo alle richieste e ai bisogni attuali. Altre volte invece è proprio l’involucro architettonico, ovvero l’impianto dimensionato alla scala urbana, che entra in crisi per cui, rispetto a invasi ancora in grado di rispondere ad esigenze funzionali correnti, l’oggetto-architettura perde la capacità di dialogare ed entrare in contatto con l’uomo.
Evidentemente si tratta di fenomeni di obsolescenza dell’architettura analoghi ma che comportano modalità di intervento in parte diverse che possono essere sinteticamente definite come “costruire nel costruito” e “costruire sul costruito”.

NEL
Quando si reputa di intervenire sullo spazio interiore di un manufatto del passato per rivitalizzarlo si agisce essenzialmente sul contenuto stesso dell’architettura. Si sceglie cioè di operare su un’unità teoricamente indivisibile composta di involucro e invasoiv, concepita unitariamente con una coincidenza di sensi e di espressione. Lavorare solo sull’interno, o prevalentemente su questo, significa dividere lo spazio dalla realtà fisica della struttura muraria e assumerlo, in definitiva, come un vuoto, non più uno spazio con un senso oltre che una morfologia, bensì come una materia amorfa da plasmare e da caratterizzare. Il vuoto, “incidentalmente” racchiuso in un contenitore che una volta gli apparteneva, accetta i nuovi dati funzionali, le nuove norme e gli stili di vita e di utilizzo, lentamente accoglie le richieste imposte dal ritmo della vita odierna e assume valori capaci di dialogare con il presente. Diviene spazio, luogo cioè dotato di forma, misura e senso, caratterizzato nei suoi tratti estetici e comunicativi, e diviene, in un certo verso, uno “spazio assoluto”, forma dell’interiorità più che dell’internità, in quanto presenza ed essenza concettualmente priva di involucro, o che, per essere precisi, ha assunto la preesistenza esclusivamente come vincolo, come confine.
Tale operazione però, per quanto delimitata, confinata prevalentemente all’interno, non perde relazione con il tutto, assume il dato materico della preesistenza come parte non secondaria del proprio essere, è quindi un “nuovo” che non potrebbe esistere, o essere in quel determinato modo, prescindendo dalle suggestioni materiche, cromatiche, tattili, tettoniche e strutturali dell’involucro che intende conservarev. Si tratta di una nuova architettura in tutto e per tutto composta di un interno ri-progettato e di una struttura recuperata, nuovo manufatto sintesi dei valori del passato e del presente, racconto dell’aspetto antico e delle esigenze contemporanee, memoria attualizzata della vita dell’uomo, progetto improponibile ex novo e in grado di esistere solo come percorso ininterrotto della storia.
Non si deve credere che tali interventi presentino l’ambiguo aspetto di qualcosa di imbalsamato all’esterno con un’anima interna moderna, l’intervento interiore – e non semplicemente di interni appunto – nell’agire “da dentro” opera una rivitalizzazione anche della parte esterna, lascia trasparire nell’aspetto e nell’espressione dell’intero manufatto quello che le modifiche interne hanno impresso. Il nuovo si manifesta a tratti e, anche quando è riconoscibile in quanto sostanzialmente autonomo, restituisce alle membra antiche nuovo vigore e forza attraverso relazioni e confronti reciproci, dettagli, innesti, inedite trasparenze e sovrapposizioni.
L’intervento sul solo spazio interno, infine, può arrivare a ridefinire persino la forma e il senso stesso dello spazio urbano a cui le architetture appartengono comunicando con forza all’esterno, e quindi a tutti, i rinnovati contenuti di cui è portatore. Il cambio di funzione, ovvero le modifiche interne percepibili all’esterno, o anche le trasformazioni del contenitore a causa dei rinnovati percorsi e del trattamento dei margini, alterano, a volte in minima parte a volte in maniera evidente, i lineamenti storici ridefinendo un nuovo profilo al manufatto trasformato capace finalmente di esprimere il suo significato attualizzato.

SUL
Il penoso panorama che palesano le periferie delle grandi città è l’esempio più lampante di come, spazi costruiti per rispondere ad esigenze funzionali, dimensionati e progettati secondo parametri opportuni e scientificamente verificati, non riescano alla fine a restituire un’immagine, un carattere all’ambiente tale che l’uomo possa riconoscersi, possa trovare criteri insediativi che non siano solo quelli strettamente legati al soddisfacimento dei bisogni primari. Autostrade, svincoli e cavalcavia ben dimensionati, accostati a edifici multipiano corretti e misurati, supportati da infrastrutture idonee ed equilibrate, sommati insieme non costruiscono uno spazio urbano, non diventano necessariamente un “pezzo di città”. Inoltre, l’aspetto stesso di manufatti architettonici, concepiti solo come utensili a grande scala, non può essere la mera trasposizione in facciata delle complesse, ovvero di banali, organizzazioni interne in quanto se l’architettura viene privata del proprio carattere non è in grado di restituire alcun valore estetico, non potendo comunicare i propri, seppur elementari, contenuti. Contenuti che non possono scaturire da mere considerazioni quantitative sui “minimi esistenziali” ma che appartengono piuttosto a modelli di vita e di comportamento che dalla sfera privata si confrontano con quella sociale.
La crescita non progettata e spontanea, l’accostamento casuale di un edificio ad un altro, l’abbandono di alcune parti e l’utilizzo sfrenato di altre fanno sì che poi si vengano a creare zone prive di alcun valore sia funzionale sia espressivo, luoghi perduti e dimenticati, spazi sospesi e in attesa di una specifica collocazione nella vita dell’uomo.
Rispetto a tale panorama l’ipotesi di riscatto delle periferie e delle aree urbane degradate appare quasi un’utopia. Senza volere sovrapporsi a settori disciplinari dell’architettura che studiano appunto i fenomeni urbani, pensando quindi di operare a scala architettonica – addirittura ad una scala minuta – appare evidente che l’annullamento degli sbagli è oggi improponibile, che cioè l’eliminazione, l’abbattimento di molti errori ed orrori perpetrati comporterebbe un costo sociale non affrontabile. Si può però ipotizzare di costruire un approccio metodologico al problema che parta dal concetto di interventi minimi capaci di aggredire l’esistente, di sovrapporsi ad esso e di suggerire nuove potenzialità prima non previste dalla realtà costruitavi.
In natura, sono molti gli esempi di reciproco aiuto tra esseri viventi diversi, forme di assistenzialismo e dipendenza che in realtà costruiscono forme simbiotiche di vita. Alle volte, anche ciò che conduce un’esistenza parassitaria a scapito di qualcos’altro in realtà svolge un servizio utile, risolve una parte dei problemi dell’organismo aggredito.
L’idea quindi del costruito sul costruito, di qualcosa cioè di autonomo e identificabile nella sua natura materia e formale rispetto l’esistentevii, vuole suggerire la possibilità di non operare rispetto a tessuti e manufatti fortemente degradati attraverso una loro totale trasformazione o addirittura eliminazione, bensì di aggredire il caos con nuove entità indipendenti e autonome, capaci di innestarsi sulla realtà in atto, e di restituire a questa nuove possibilità d’uso e di fruizione, di comprensione e di lettura. Interventi non necessariamente confrontabili con la scala del preesistente, a volte aggiunte minime, oggetti a scala umana più che proporzionati alle dimensioni dello spazio urbano, in grado però di modificare sostanzialmente le ragioni stesse del luogo. Anche la percezione, la contemplazione e il valore estetico dei luoghi può essere alterato dal valore aggiunto di piccoli interventi “parassitari”, come il clavel de l’aire, un piccolo garofano che vive a scapito di altre piante, capace di adornare con i suoi colori intensi piante e alberi che altrimenti risulterebbero senza fioritura.
Il principio di qualcosa di nuovo ed estraneo palesemente aggiunto sul preesistente è un principio che suggerisce una modificazione concepita in modo che le diverse fasi della stratificazione nel tempo siano tutte leggibili e, soprattutto, che l’integrità dell’originale possa, almeno teoricamente, in ogni momento essere recuperata. Inoltre tali nuovi organismi aggiunti o aggregati riescono a sconvolgere e modificare a tal punto il metabolismo dell’organismo storico riuscendo così a risolvere tutte le discrasie e le carenze che avevano portato all’obsolescenza del manufatto originario.
Questa modalità del fare non ha dimensione o scala, è applicabile al singolo edificio, come allo spazio urbano, come a porzioni di territorioviii. E’ un’indicazione, del tutto sperimentale, che parte dal principio che l’esistente, per quanto non soddisfi le nostre esigenze, non è sempre così facilmente modificabile e che quindi la soluzione di situazioni complesse può nascere dal controllo e dalla gestione del “disordine” piuttosto che dal tentativo, improbabile, di eliminazione dello stesso. In filosofia tale processo è assimilabile alla “teoria del caos” che, rispetto alla concezione delle scienze tradizionali per le quali il caos era, per definizione, “assenza di ordine”, considera oggi il caos una dimensione retta da leggi non definibili e identifica il disordine con il principio di “complessità”ix.
Ciò che è complesso è quindi problematico, dialettico e implica, in definitiva, una partecipazione attiva e quindi un “coinvolgimento creativo”.
Costruire sul costruito significa quindi aumentare lo spessore della stratificazione della memoria e percepire le trasformazioni dei segni attraverso tracce impresse sui materiali della storia. Questa “complicazione” ottenuta attraverso la fusione di linguaggi diversi corrisponde maggiormente all’immagine che l’uomo propone di sé nel contemporaneo e gli permette di esprimere la sua cultura e la sua volontà di rappresentarsi come “compresenza” di segnix piuttosto che come sintesi di forme astratte.


i Crf. G. Ponti, Amate l’architettura, Genova, Vitali e Ghianda, 1957
ii Cfr. R. De Fusco, Segni, storia e progetto dell’architettura, Roma – Bari, La Terza, 1978
iii Cfr. C. Prandi, Tradizioni, in Enciclopedia, vol. XIV, p. 414 segg., Torino, Einaudi, 1981
iv Cfr. R. De Fusco, op. cit.
v Cfr. J. Llinàs, Saques de esquina, Girona, Editorial Pre-textos, 2002
vi Cfr. Aa.Vv., Parasite Paradise. A manifesto for temporary architecture and flexible urbanism, Rotterdam, NAi Publishers, 2003
vii Cfr. J. Torres Garcia, La recuperacion del objecto, Montevideo, Biblioteca Antigas, 1965
viii Cfr. F. Moussavi, A. Zaera-Polo, Foreign Office Architects: Phylogenesis: Foa's Ark, Barcelona, Actar Editorial, 2003
ix Cfr. J. Gleick, Chaos, making a new science, New York, Viking Penguin, 1987
x Cfr. R. Venturi, Complexity and contradiction in architecture, New York, The Museum of Modern Art, 1966, trad. it., Complessità e contraddizioni nell’architettura, Bari, Dedalo, 1980

02 marzo 2011

una digressione: 50 anni della R4

Noi del 1961 quest'anno compiamo i fatidici 50 anni.
Con noi li compiranno, o li avrebbero compiuti, molti oggetti di design e di uso comune che hanno segnato le nostre vite. Il design, come l'architettura, non passa inosservato quando riesce ad interpretare sogni e desideri di intere generazioni.
Per questo, eludendo solo apparentemente il tema dell'architettura, ritengo giusto celebrare i 50 anni della mitica R4, di una automobile che con il suo stile, la sua tecnologia e il suo linguaggio è rimasta forse ineguagliata. Per far questo, non c'è forse modo migliore che riproporre la poesia di Michele Serra scritta proprio in occasione del termine della produzione della R4.

Lamento in morte della Renault 4
di Michele Serra
 
Signor Renault, ma con quale diritto
lei manda a morte questo essere umano
questa ragazza in forma di meccano
questo ragazzo a ruote, questo guitto
prodigioso, capace di parlare
il finlandese a Tripoli, l’inglese
in Catalogna, l’Italiano a Praga
sporca di neve discendere al mare
sporca di sale andare alle distese
verdi, alla pianura, alla strada?
Reincarnazione dei monaci camminatori
che fecero l’Europa trasportando parole
sorella in spirito dei negri portatori
coi piedi nudi duri come suole
primo esempio di replica industriale
dei mocassini degli indiani Seminole
assemblea permanente, scopatoio epocale
valigia a motore, letto, ospedale
teatro di piazza, vibrazione vitale
rompischiena e raddrizzapaesaggi:
la Renault Quattro, signor “Muoversi oggi”
già si muoveva quando lei era fermo
prima che questo secolo raffermo
dimenticasse ragione e sentimento
che muovono davvero il movimento.
Sapeva di latta, di stoffa, di bulloni
la scatola ingegnosa, risultato
di una sfida tra opposte concezioni
di utilitaria: questa era il quadrato
l’altra, la Due Cavalli, il tondo
le due vecchie filosofe di Francia
che hanno spiegato i chilometri al mondo.
Noi avevamo l’eleganza della Lancia
la potenza dell’Alfa, la Ferrari
altri uragani di vernice e fari
ma nessuno riuscito ad emulare
il genio trasandato dei francesi
la nonchalance di quel caracollare
dentro la terra fatta di paesi.
Signor Renault, spero che al funerale
della Erre Quattro, mentre lei pronuncia
la sua orazione contrita e solidale
accompagnata dalla mesta denuncia
delle implacabili leggi di mercato
si levi dalla tomba la defunta
e con decrepito sforzo scatolato
in fuori-fase, con la marmitta unta
sfili lontano, verso l’orizzonte
lasciando sull’asfalto le sue impronte
intelligenti, sensibili al vento:
le Michelin modello Novecento