cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

14 novembre 2006

Architetture vive

La prima volta che invitai Sandra D’Urzo a tenere una conferenza, per conto dell’O.N.G. Architecture & Development, a Napoli presso la Facoltà di Architettura, mi colpì il modo con cui cominciò la sua lezione: mostrava alcune homepage dei siti internet degli studi di architettura più famosi nel mondo che, nella maggior parte, presentavano in apertura il ritratto dell’architetto. Non la foto di un’opera, non un progetto, ma l’immagine del progettista, di quel professionista che, non a caso, si dice appartenere allo star system dell’architettura. Il “divismo” portato nel campo dell’architettura è solo uno dei tanti fenomeni che oggi individuano, a tutti gli effetti, un “mercato” dove il progetto è solo una delle tante merci proposte e la griffe dell’architetto e la spendibilità del nome, ovvero il sensazionalismo della soluzione, troppo spesso provocatoria, contano più del manufatto, a scapito delle motivazioni di tipo sociale, culturale e funzionale che vengono asservite alla “forma”, all’immagine patinata del progetto.
Da allora, da quella presentazione del lavoro svolto dalla O.N.G. francese nel mondo, ho più volte ripensato all’immagine degli architetti che mettono in mostra – in vetrina - direttamente loro stessi prima del loro lavoro, deducendo una strana, quanto eloquente, discrasia: oggi le architetture sono sempre più spesso fotografate completamente vuote, prive sia della presenza dell’uomo che di qualsiasi componente di arredo o oggetto capace di testimoniare la vita che si svolgerà al loro interno, mentre, all’opposto, i rendering, le simulazioni virtuali dell’architettura terminata, e finanche i modelli in scala, risultano estremamente animati da persone e cose, auto e aerei, mongolfiere e astronavi, quasi a volere dimostrare che quegli spazi, a volte inquietanti nella loro incomprensibilità, potranno un giorno soddisfare le esigenze dei destinatari, delle persone cioè che dovranno svolgere al loro interno delle attività reali.
Architetti protagonisti + simulazioni affollate = architetture vuote, questa appare l’equazione in cui versa quel mondo dell’architettura suggerito dai media e dal mercato, voluto dalla politica dell’apparire e conseguentemente proposto dalle riviste; ma non solo, questo è soprattutto l’incomprensibile universo dei concorsi di architettura dove soluzioni sempre più uguali si confrontano solo in base all’eccesso di novità e di protagonismo degli autori.
Al polo apposto esistono ancora architetti che lavorano per committenze che fanno richieste precise, per clienti privati, nel rispetto di budget rigorosi e dentro i confini frustranti di regolamenti edilizi talvolta improbabili (i “grandi progetti di architettura”, non si sa perché, possono sempre andare in deroga alle normative vigenti) e, alla periferia estrema di questi professionisti, esiste chi crede ancora che il mestiere dell’architetto sia quello di rispondere a domande reali, di soddisfare bisogni, di interpretare con serietà le esigenze dettate dal vivere quotidiano. Alcuni, tra questi, sentono più urgente e pressante la richiesta di chi non ha voce, di chi non sa neanche di preciso cosa chiedere se non urlare il proprio disagio esistenziale. Questi tecnici lavorano per organizzazioni private o pubbliche, per associazioni nazionali o internazionali, in sinergia con volontari, medici, religiosi e laici, non perseguono il compiacimento di “firmare” un progetto o di apparire sulle riviste, semplicemente “costruiscono”, realizzano pozzi, acquedotti e ponti ovvero spazi e strutture, rispondendo con modestia a finalità chiare e definite. E’ interessante poi verificare come i disegni prodotti da questi architetti di “frontiera”, come spesso sono chiamati, siano semplici elaborati indispensabili al “cantiere”, veloci prospettive ridotte a poche linee o rendering essenziali utili a suggerire l’aspetto finale dell’opera e che, infine, le fotografie che riproducono le loro realizzazioni sono, per lo più, immagini che ritraggono le persone che – felici - entrano in contatto con le loro case, con le loro scuole, con memorie recuperate. Foto di feste, di volti, di bambini finalmente sorridenti, e le architetture divengono sfondo, il palcoscenico dove si può, e si deve, svolgere la vita.
Architetti senza nome + essenziali disegni tecnici = architetture vive, questo è il panorama che risulta dal lavoro di coloro che mettono le loro conoscenze a “servizio” degli altri e che fanno l’architettura per gli uomini e non l’architettura per l’architettura, che sanno di non dover “cambiare il mondo” ma di potere realisticamente cambiare in positivo la vita di chi lo necessita.
Naturalmente, costruire una architettura sostanzialmente rivolta e misurata sull’uomo, sulle sue esigenze fisiche e psicologiche, sulle sue aspettative e intorno ai suoi bisogni e speranze non è esclusivo di chi fa architettura per l’emergenza o per lo sviluppo: è un’attitudine progettuale tesa a non privilegiare la “cosa” architettonica bensì l’effetto che essa è in grado di produrre, la capacità di dare un carattere, e nel contempo immagine, all’habitat in cui si vive. Si tratta di un modo di “intendere l’architettura” considerata nella più ampia accezione di “progetto dei luoghi destinati alla vita dell’uomo”, progetto che non vuole limitarsi alla mera conformazione morfologica di “contenitori” quanto piuttosto comprendere le ragioni degli spazi che dovranno contenere e della vita che si svolgerà nel loro interno. Si tratta di un’impostazione teorica, culturale e metodologia necessaria alla ideazione e alla concretizzazione di spazi finalizzati alle azioni e ai bisogni dei diretti destinatari, alla scelta e al progetto di oggetti che, con loro interagendo, animeranno tali spazi e infine all’ambiente, inteso come complesso sistema di relazioni, legato alle effettive necessità fisiche e psicologiche dell’uomo.
Relativamente ai progetti di cooperazione tesi a incrementare lo sviluppo sociale ed economico di Paesi più svantaggiati, parlare di “architettura per l’uomo” significa riportare in primo piano, da un punto di vista politico e culturale, la persona prima delle cose di cui ha bisogno, le sue esigenze prima degli strumenti per soddisfarle. I progetti si fanno così sintesi efficace dei bisogni primari e espressione delle “certezze” che possono derivare solo dall’affrancamento da tali bisogni esistenziali. L’essenzialità pertanto diventa il principio guida, capacità di misurare e armonizzare strutture, spazi, insediamenti. L’essenzialità non esclude il “superfluo” ma ne prende solo quella parte necessaria al dialogo tra l’uomo e le cose che lo circondano. La casa non è un tetto per ripararsi, ma è un rifugio in cui ritrovarsi, la scuola non è uno spazio collettivo ma è il luogo dove scambiarsi conoscenze e culture.
In tal senso è opportuno fare un’ulteriore precisazione proprio verso alcuni termini che di solito si usano quasi automaticamente.
Lo “sviluppo urbano sostenibile” implica due concetti fondamentali: il riconoscimento dello stato di bisogno – sviluppo infatti vuole sottintendere quella serie di cambiamenti utili a consentire un passaggio da uno stadio più semplice a uno più complesso, da una condizione carente a una soddisfacente – e la necessità che la proposta di risoluzione di tale stato di bisogno si radichi nel contesto sociale e dia autonomamente i suoi frutti distribuiti nel tempo – sostenibile è infatti tutto ciò che può essere protratto e difeso con sollecitudine e impegno -. Tali due principi, il riconoscimento dei bisogno e la proposta di una soluzione non temporanea –i progetti destinati allo sviluppo urbano sostenibile sono, da questo punto di vista, altro dall’architettura finalizzata a risolvere l’emergenza – diventano, se filtrati dalla consapevolezza delle specificità e delle diversità, il medium per innescare un progresso continuo e non effimero.
Il progresso infatti va a sua volta ridefinito e non va confuso con l’omologazione verso “progressi” che si fondano su culture e aspettative sociali totalmente differenti. Il progresso che si fonda sulle reali necessità e che innesca un meccanismo endogeno a partire dalle potenzialità e opportunità reali del contesto sociale e politico è l’unico che può realmente durare nel tempo. La globalizzazione infatti ha un’accezione negativa se viene intesa come omologazione e appiattimento verso comportamenti diversi tesi esclusivamente al trasferimento di culture e all’assoggettamento economico, ha invece una potenzialità auspicabile se intesa come scambio e divulgazione, possibilità di attingere autonomamente a pari opportunità, a tecnologie, tecniche, conoscenze e ricerche.
Lo sviluppo infatti, per definizione, implica distribuzione delle ricchezze e divulgazione della cultura e non dipendenza di capacità economiche e di risorse. La globalizzazione che si vuole respingere tende a ridurre a pochi modelli e a poche soluzioni tutte le differenze, crea “bisogni” a volte del tutto effimeri a cui solo pochi sanno dare – a caro prezzo – un’adeguata risposta, impone senza capire, a differenza di una “collaborazione globale”, di una cooperazione internazionale in grado di arricchirsi dalle reciproche differenze e decisa a divulgare conoscenze, condividere il proprio patrimonio culturale, certa di arricchirsi, in ogni caso, dal reciproco scambio. Anche da un punto di vista politico, visti i costi che i Paesi più ricchi devono sostenere per evitare l’annullamento di quelli più indigenti, si intende facilmente che tale impostazione – prettamente culturale – non è utopica ma è perseguibile solo se si sposta il fine che si vuole realizzare, da quello del profitto a quello della convivenza.
Alla fine della sua conferenza a Napoli Sandra D’Urzo fu assalita da domande e da richieste di giovani studenti che volevano capire a fondo in cosa consistesse il suo lavoro. Sinceramente non so quanti siano riusciti a percepire che il suo, come quello dei suoi colleghi sparsi nel mondo in luoghi francamente “difficili”, non fosse un mestiere “eccezionale”, non fosse una “missione” o una rinuncia a una vita normale, anzi che proprio l’ascolto e la conoscenza della normalità, dei minimi esistenziali che sono a tutti dovuti, implica la necessità di un impegno da parte di coloro che scelgono di fare una professione che è quella di tradurre in materia, di fare diventare realtà, i sogni del prossimo, e che quindi tutti, spostando gli obiettivi da perseguire, ovunque e con i mezzi di cui siamo capaci, possiamo dare il nostro contributo.

Allestire, mostrare, comunicare

Per definire le discipline denominate in ambito accademico “allestimento” e “museografia” e volendo distinguere eventuali specificità, non è superfluo ricordare che l’allestimento è, per sua natura, la risposta ad una domanda di comunicazione di un contenuto (comunicare deriva dal latino communicare, un verbo collegato alla parola communis, vale a dire comune; communicare indica pertanto l’azione di mettere in comune, rendere comune). Come campo progettuale esso si confronta con l’innovazione dei mezzi offerti dalle tecnologie più avanzate proponendo un nuovo “abito” all’esigenza di informazione, comunicazione e divulgazione di contenuti. L’allestimento è certamente la prassi progettuale maggiormente connessa alle sollecitazioni del mondo dell’arte e della multimedialità, ma è altresì quella che necessita di non perdere il suo valore tradizionale: di costruire intorno all’evento esposto o al messaggio da comunicare un’emozione fruitiva complessa e completa, di realizzare nello spazio e con lo spazio il luogo dove coinvolgere l’attenzione del fruitore.
La museografia non si deve considerare, rispetto agli allestimenti temporanei, solo il progetto di un’esposizione permanente, essa è piuttosto un’operazione progettuale che, a partire dall’oggetto e dal suo modo di entrare in contatto con il fruitore, giunge a ridefinire il senso stesso del luogo e degli spazi in cui si colloca, spazi che, a loro volta, possono essere preesistenti o nascere insieme all’allestimento museografico. Secondo tale accezione progettare un museo, o anche solo un allestimento museografico, non solo significa concepire lo spazio dove sistemare ed esporre ma anche dare ad esso una “forma significante” ed un ruolo fondamentale nel processo di comunicazione e coinvolgimento dell’utente. Il termine museo, utilizzato per indicare quell’edificio in cui sono raccolti e conservati oggetti e opere varie di interesse storico, artistico o scientifico, che vengono esposti al pubblico per scopi di studio e di cultura, nasce dal sostantivo greco mouseion, derivante da mousa, la dea ispiratrice dell'arte. In seguito tale termine viene usato per indicare una raccolta di antichità e opere d'arte, dove però i criteri di selezione e di ordinamento variano nel tempo dalla semplice collezione, dove gli oggetti sono raggruppati per l’effetto che possono produrre sul visitatore, fino ai casi in cui la raccolta si pone come “itinerario conoscitivo razionale” impostato su criteri determinati.

La problematica insita nella collocazione di un’opera d’arte in un luogo definito può essere condensata in una sola immagine sintetica: Autoritratto a sette dita di Chagall. Tale quadro rappresenta una condizione del tutto particolare che è insita nella creazione di un’opera. Esso raffigura l’artista nel momento di elaborazione di un dipinto e in esso sono indicati in maniera precisa tre luoghi: il primo, che si vede dalla finestra, è il luogo dove l’artista è in quel preciso momento; il secondo, disegnato come un fumetto in alto a destra, è ciò che pensa l’artista, è cioè il luogo che l’artista ricorda e che è alla base dell’ispirazione del quadro che sta producendo; il terzo è il paesaggio che prende forma sulla tela grazie all’abilità dell’artista. Ora i tre paesaggi sono diversi, l’artista non ricorda e non vuole rappresentare il luogo dove risiede, ma qualcosa impresso nella sua memoria e che intende raccontare ad altri, solo che, nel momento in cui prende forma, l’opera non è più uguale al ricordo. La memoria non è, infatti, una riproduzione fedele, uno scatto fotografico del ricordo, è già una deformazione, è un’interpretazione tesa a comunicare, più che la conformazione oggettiva del luogo ricordato, il suo senso, il suo significato, il contenuto che è alla base della ragione per cui ancora l’artista lo conserva dentro di sé. Questa puntualizzazione di Chagall su ciò che accade all’artista nel momento della creazione dell’opera diviene, per noi che leggiamo l’opera, ancora più critica se pensiamo che tutto ciò è contenuto in un quadro, che a sua volta è un’opera d’arte che non racconta di nessuno dei tre luoghi ma della situazione mentale e psicologica dell’artista e che, probabilmente, è posto, in senso fisico, in un luogo, forse un museo, forse una galleria, che non è in nessuno dei tre luoghi rappresentati. Questo rimanda alla condizione di chi deve definire il progetto di allestimento. Chi espone deve trovare l’adeguata collocazione a tale calembour di memorie, permettendo sia la comprensione dell’opera che la partecipazione attiva del fruitore il quale, a sua volta, sovrapponendo le sue memorie e i suoi ricordi a quelli evocati dall’artista, compirà l’intero percorso insito nell’opera d’arte e da essa suggerito. Il fruitore, infatti, contribuisce con la sua conoscenza, la sua cultura e le sue emozioni a dare un senso compiuto all’opera ed in particolare al suo adeguato inserimento in un particolare contesto ambientale.
Tra i molteplici principi progettuali che sottendono l’allestimento se ne vogliono mettere in risalto per brevità solo i seguenti: il rapporto tra assenza e presenza e la dialettica tra singolarità e molteplicità.
E’ importante infatti riferirsi alle sue aspettative del furitore e utilizzarle allo scopo di attrarrne l’attenzione. Presenza sottointende la collocazione inattesa di opere in contesti che normalmente non sono addetti a tale scopo e che vengono trasformati ed alterati nel loro senso primario dalla nuova apparizione, mentre assenza indica la mancanza da luoghi considerati, dal senso comune, “canonici”, dove cioè tradizionalmente ci si aspetta di trovare l’inserimento di un’istallazione artistica. Sapere utilizzare sapientemente lo stupore dell’inatteso e la delusione della mancanza dell’atteso non è una modalità legata solo all’effimero, al temporaneo. E’ prassi ormai diffusa disporre le opere nello spazio museale prescindendo dalla loro collocazione usuale – dalle pareti, dalle nicchie, dagli espositori – e ricorrendo invece ad una modalità che potremo definire “dell’incontro”, dove cioè il momento del contatto tra il fruitore e l’opera sia pari a quello di un inatteso, quanto magico, incontro dettato dal caso. Gli oggetti “vanno verso” il visitatore, conquistano lo spazio dell’architettura che li contiene, e si dispongono a costruire un tempo preciso di relazione e di scambio con l’uomo che incontreranno.
Rispetto al tema della singolarità e molteplicità, la solitudine di un’opera, ovvero l’affollamento di più opere, contribuiscono in ugual modo alla comprensione dei manufatti artistici. Può, infatti, essere necessario il posizionamento di una sola opera in un intero ambiente per far sì che essa, una volta costruito il sistema con il quale approcciarla, sistema mai libero ma sempre mirato e misurato dall’allestimento, possa raccontare silenziosamente ogni dettaglio della sua storia. All’opposto, invece, proprio la modalità di avvicinamento e di fruizione dell’opera può essere determinato anche dalle relazioni che essa può costruire, in una sala, insieme con altre opere.
Dalla “solitudine” dell’opera, ovvero dalla relazione di questa con altre opere esposte, derivano due ulteriori principi che è importante sottolineare. Il primo, riguarda il rapporto tra l’oggetto esposto e il fondo, cioè tra la sua grana, la sua materia, il suo colore e la natura cromatica e materia dello sfondo su cui si staglia; il secondo è quello dell’ordine e del disordine, della collocazione quindi non valutata in sé stessa ma rispetto al senso del luogo in cui sono inseriti i manufatti.
Queste indicazioni progettuali circa le modalità allestitive dello spazio nascono ovviamente dall’osservazione di casi realizzati, sono cioè frutto dell’analisi di opere di grande valore, il tentativo di oggettivarle affinché possano diventare anche strumento operativo nella fase progettuale rischia di ridurne il loro stesso significato. Non sono principi unici, né tantomeno ripetibili secondo schemi regolari e precisi, sono piuttosto suggestioni, stimoli che insieme alle regole della costruzione di spazi destinati all’esposizione possono elevare il mero intervento funzionale corretto e rispettoso delle normative in un vero e proprio “progetto”. Un progetto complesso che parte dalle opere e dallo spazio architettonico e che diviene capace di incidere e di costruire un evento fruitivo destinato all’uomo, che incide sulla sua sensibilità, la sua memoria, e lo stimola a confrontarsi con il mondo e gli altri uomini.

L’insegnamento tra arredamento e design: dizionario minimo sulle discipline dell’interno architettonico

La formazione in Italia
Con la riforma universitaria (D.M. 509/99), conosciuta semplicemente con la formula 3+2 che indica un iter di studi diviso in due livelli di titolo di laurea, sono proliferati negli atenei italiani percorsi formativi fortemente specialistici e indirizzati verso un preciso campo di ricerca o settore del mercato del lavoro. All’interno della frammentazione dell’universo delle Facoltà di Architettura hanno assunto un ruolo importante i corsi di laurea in design, volutamente distinti da quelli di architettura anche nella figura professionale che intendono e possono formare. Il “design” contemporaneo, infatti, che anche nella sua denominazione sembra voler prendere le distanze dalla tradizionale definizione di “disegno industriale”, pare assumere il profilo, più che di una disciplina progettuale, di un vero e proprio modo di concepire, interpretare e inventare la realtà. Il design, che nella sua originaria accezione anglosassone è traducibile in italiano semplicemente con il termine “progetto”, rappresenta oggi una pratica metaprogettuale capace di dare forma non solo a oggetti o manufatti, ma in fondo alla vita stessa, definendo l’aspetto e la modalità di comunicazione di ogni manifestazione del quotidiano, dalla grafica alla pubblicità, dalla moda alla tecnologia, dall’arte al look. Non solo, il design più avanzato non può più limitarsi a definire la forma della cose, ne studia la durata e il costo, la capacità di adattamento o di modificazione della vita dell’uomo, crea i bisogni e giustifica le necessità, determina il profilo degli utenti, gestisce e prevede il tempo di attaccamento e disaffezione.
Distinto è invece, per alcuni aspetti, l’approccio di alcune discipline presenti nei corsi di laurea di architettura che si raggruppano in un unico settore contenente vari insegnamenti, comunemente definiti della “piccola scala”, i cui principali sono arredamento, progetto dell’interno architettonico[1], progetto del prodotto di arredo, allestimento, museografia e scenografia. Materie eterogenee viste congiuntamente non per luogo di intervento o dimensione operativa quanto piuttosto per approccio metodologico al progetto e finalità dei risultati previsti in relazione alle aspettative dell’uomo.
I docenti di tale settore disciplinare (icar 16) della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” hanno, a partire da quest’anno accademico, dato vita ad un nuovo corso di laurea triennale denominato Arredamento, Interno Architettonico e Design. Tale corso di laurea, nel raggruppare in un’unica titolazione sia il design che il progetto degli interni e delle sue attrezzature, si è voluto distinguere da quelli esclusivamente in design, rimarcando fortemente la non estraneità di tali discipline al più generale campo dell’architettura. In particolare il titolo di laurea che permette di conseguire è a tutti gli effetti una laurea (breve) in architettura, è quindi un percorso di studi teso a formare un architetto completo con competenze specifiche, in grado di affrontare il progetto di interni, di recupero del patrimonio architettonico esistente, il progetto del prodotto e dei complementi di arredo.
Chi insegna tali materie, ovvero compie ricerca in tale settore, non può non chiedersi quanto siano noti e condivisi i principi disciplinari, i contenuti culturali e gli obiettivi su cui questo genere di indirizzo si fonda. In fondo se, probabilmente, un giovane che s’iscrive alla facoltà di architettura pensa, mediamente, che il suo futuro sarà quello di “disegnare città” o quantomeno di “costruire edifici”, facendo le dovute proporzioni, non è errato supporre che coloro che optano per un corso di laurea in arredamento sperano di assolvere, alla fine del triennio, ad una funzione non molto dissimile da quella dell’arredatore vecchio stampo, ossia di un tecnico capace di “riempire” gli spazi vuoti lasciati dagli architetti.
Far comprendere il ruolo che può, e deve, rivestire l’architetto – e l’architetto di interni nello specifico - nella nostra società, è forse più complesso che insegnare a diventarlo. Sostenere la cattedra di un insegnamento semestrale, quale è diventato ad esempio Arredamento in quei pochi percorsi di laurea che ancora lo contemplano, significa porsi l’obiettivo minimo di suggerire almeno un determinato modo di guardare l’architettura, di intenderla cioè nella sua totalità misurandola alle aspettative dell’uomo, fuori da qualsiasi pregiudizio formale. Chi si avvicina al progetto inteso alla piccola scala non è del tutto consapevole che arredare non è la mera e naturale attività di disporre i mobili in un ambiente, che l’architettura degli interni non si interessa dell’interno dell’architettura, che il progetto del prodotto di arredo non è il design degli oggetti per la casa, e che l’allestimento e la museografia non sono sinonimi.
Proprio la consapevolezza della mancanza di chiarezza e obiettività su questi temi ha spinto a produrre, di seguito, una sorta di dizionario minimo, brevi definizioni tese a specificare gli intenti e le possibilità insite nelle principali materie componenti il settore disciplinare.
Le materie e l’articolazione didattica del nuovo corso di laurea triennale di Napoli, disegnano un corpus teorico e una metodologia progettuale che non vogliono essere “altro” dall’architettura, individuando un modo di intendere il progetto e di operare che pone l’uomo al centro di ogni definizione e il manufatto architettonico al suo servizio. Volutamente tale modo di operare e pensare prende le distanze da quelle ideologie astratte che invece professano l’architettura, ovvero il design, come una prassi le cui ragioni si esauriscono all’interno delle proprie regole e specificità. Il corso in Arredamento, Interno Architettonico e Design è organizzato con l’intenzione di rimarcare un profilo umanistico nella formazione degli studenti, dando ampio spazio, accanto alle materie progettuali, a discipline come la storia dell’arte, della filosofia, dell’arredamento e dell’architettura, e ad altre meno consuete nelle Facoltà di Architettura come filosofia, estetica, sociologia e psicologia. Le materie tecniche, inoltre, sono poste a servizio dell’intuizione progettuale e dello studio della realizzabilità del manufatto. L’architettura è infatti l’arte di costruire spazi per l’uomo, emozionandolo e la capacità di riuscire a coinvolgere la sfera emotiva dell’uomo resta il compito principale di chi intende praticare questo mestiere.

Dizionario minimo
Progetto dell’interno architettonico
Il progetto dell’interno architettonico intende dare forma e significato all’architettura nel suo complesso a partire dal suo interno. Secondo un'espressione usata dai primi docenti incaricati di insegnare tali discipline, l'architettura degli interni, come era una volta definita tale materia, rappresenta quel particolare momento della progettazione in cui, posto l'uomo come protagonista della fruizione dello spazio, si guarda l'architettura dall'interno, ovvero si definiscono con precisioni le connotazione materiche, dimensionali, formali e percettive degli ambienti, precisandone il loro uso e quindi la funzione deputata. Tale atteggiamento progettuale pertanto interviene e opera direttamente sul rapporto che si istaura tra il manufatto architettonico e il fruitore, rifuggendo assunti metodologici oggettivi, distanti dalle aspettative, dai desideri e dalle necessità dell’uomo. La centralità del fruitore sposta l’attenzione del progettista dalle cose al loro significato, dall’oggetto architettonico al senso che tali strutture e spazi esprimono e comunicano all’utente. Per questo, chi opera in tale settore disciplinare preferisce utilizzare il termine "interiorità" piuttosto che "internità". Con interno si vuole infatti definire un luogo, vedere una parte delimitata del tutto, trattare solo un determinato aspetto dell’architettura, interiore invece, oltre a sottendere tutto quanto è pertinente ad un ambito spazialmente circoscritto, si riferisce con maggiore chiarezza a ciò che lo individua idealmente, con diretto riferimento allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo.

Decorazione
La decorazione in architettura non è accessoria ed è lo svelarsi, in forma costruita, dei sensi contenuti nell'opera, è cioè parte integrante del concretarsi dei significati primari dell'architettura e non può essere considerata superflua o aggiunta[2]. Essa rappresenta l'interpretazione formale data da un determinato contesto sociale alla funzione, attraverso l’ordine strutturale, la scelta dei materiali e la loro disposizione.
Decorare deriva dal termine latino decere: essere degno, conveniente, appropriato, e il decor è tutto ciò che avvalora queste qualità. Dal punto di vista etimologico i termini decorazione, decorare, decoroso, decoro, decente e degno sono associati al concetto di convenienza in cui è implicito un riferimento all'uso, alla funzione che deve svolgere il manufatto. La decorazione non ha solo lo scopo di ordinare, proporzionare, rappresentare lo spazio abitato, essa ha piuttosto il fine di renderlo riconoscibile, di riprodurre le suggestioni derivanti dalla cultura e dalla conoscenza del mondo. L'uomo proietta i suoi desideri e le sue aspettative sull'architettura, attendendo da questa una risposta che sia chiara e decodificabile. La decorazione è quindi il “superfluo necessario” ad arricchire il significato meramente funzionale dello spazio abitato, consentendo di tradurre in forma costruita i sensi stessi dell’architettura.

Arredamento
Arredare è rendere agevole l’uso dello spazio; dotare lo spazio di attrezzature, strumenti, utensili necessari allo svolgimento delle attività umane e al soddisfacimento dei bisogni. Bisogni che naturalmente non sono solo quelli primari, legati all’uso e alla risposta funzionale dei luoghi, ma che includono anche le necessità psicologiche, rappresentative e di identificazione con l’ambiente costruito. Secondo la definizione del vocabolario "arredo" significa "guarnimento, suppellettile" ed è proprio nella radice del termine “guarnire” che, se nella sua accezione di "guarnizione" c'è l'aspetto meno nobile di tale concetto - ornamento fatto con fiocchi, trine e fregi - nel senso di "guarnimento" invece contiene il principio di "fornire di cose necessarie, attrezzare".
Spazio e attrezzature sono quindi disponibili alla fruizione e il loro effetto va oltre il momento pratico del semplice appagamento di esigenze elementari in quanto l’arredamento determina una dimensione estetica del vivere quotidiano attraverso la forma stessa dell’abitare.

Progetto del prodotto di arredo
Il progetto del prodotto di arredo non è un settore del design industriale limitato al disegno degli oggetti che animano lo spazio interno dell’architettura. Per quanto il risultato concreto del design del mobile e del progetto del prodotto di arredo sia in qualche misura affine, la differenza è nei presupposti teorici e culturali. Se il design si interessa principalmente dell’oggetto di serie e da questo, dal materiale, dalla tecnologia, dalla strategia produttiva e di vendita, parte per dargli forma e carattere, il prodotto di arredo ha la sua ragion d’essere nel ruolo che esso dovrà istaurare con lo spazio a cui è destinato e con l’uomo che lo utilizzerà. Senza nulla perdere quindi dell’attenzione relativa al prodotto, il disegno delle componenti arredative propone sempre un concetto, un’interpretazione del senso che acquisterà lo spazio una volta che sarà dotato di quell’elemento oltre che del suo potenziale evocativo e narrativo che avrà nei confronti del fruitore. Il progetto del prodotto di arredo quindi si interessa soprattutto dell’effetto che produrrà nell’ambiente una volta che esso ne sarà dotato.

Allestimento
L’allestimento è, per sua natura, la risposta ad una domanda di comunicazione di un contenuto in maniera veloce e non duratura (comunicare deriva dal latino communicare, un verbo collegato alla parola communis , vale a dire comune; communicare indica pertanto l’azione di mettere in comune, rendere comune)[3]. Come campo progettuale esso si confronta con la velocità e l’innovazione dei mezzi offerti dalle tecnologie più avanzate proponendo un nuovo abito all’esigenza di informazione, comunicazione e divulgazione di contenuti. E’ certamente la prassi maggiormente compromessa con le sollecitazioni del mondo dell’arte e della multimedialità, ma è altresì quella che maggiormente necessita di non perdere il suo valore tradizionale, di costruire intorno all’evento esposto o al messaggio da comunicare un’emozione fruitiva complessa e completa, di costruire nello spazio e con lo spazio il luogo dove coinvolgere l’attenzione del fruitore.

Museografia
La museografia non è solo il progetto di un’esposizione permanente, è piuttosto un’operazione progettuale che, a partire dall’oggetto e dal suo modo di entrare in contatto con il fruitore, giunge a ridefinire il senso stesso del luogo e degli spazi in cui si colloca, spazi che, a loro volta, possono essere preesistenti o nascere insieme all’allestimento museografico. Secondo tale accezione progettare un museo o anche solo un allestimento museografico non solo significa concepire lo spazio dove sistemare ed esporre ma dare ad esso una forma significante ed un ruolo fondamentale nel processo di comunicazione e coinvolgimento dell’utente.
Il termine museo, utilizzato per indicare quell’edificio in cui sono raccolti e conservati oggetti e opere varie di interesse storico, artistico o scientifico, che vengono esposti al pubblico per scopi di studio e di cultura, nasce dal sostantivo greco mouseion, derivante da mousa, la dea ispiratrice dell'arte. In seguito tale termine viene usato per indicare una raccolta di antichità e opere d'arte, dove però i criteri di selezione e di ordinamento variano nel tempo dalla semplice collezione, dove gli oggetti sono raggruppati per l’effetto che possono produrre sul visitatore, fino alle concezioni dove la raccolta si pone come itinerario conoscitivo razionale impostato su criteri determinati[4]. Oggi, da luoghi per pochi studiosi, i musei diventano la testimonianza della cultura e della tradizione e pertanto si aprono ad un rapporto costante e attivo con i fruitori: non solo luogo dove apprendere ma sistema complesso di informazioni e dati con cui interagire.

ScenografiaLa scenografia non è un’arte, essa non crea un linguaggio autonomo, il sistema dei suoi segni infatti rimanda ad altro, ad altro sistema artistico – la letteratura, la poesia - che, viceversa, possiede un suo linguaggio autonomo. Una scenografia non ha infatti senso compiuto se non quando diviene il luogo dove una rappresentazione prende vita[5]. Eppure la scenografia, pur non possedendo un linguaggio autonomo capace di dare forma alla realtà oggettiva, definisce la sua essenza attraverso la collaborazione e l’intreccio di più arti – poesia, architettura, pittura, scultura – che concorrono a definirne la forma e la sostanza. Rispetto all’architettura essa si pone lo stesso fine, costruire uno spazio, spazio che sarà il luogo di azioni della vita dell’uomo. La differenza fondamentale è che se l’architettura tende alla costruzione di uno spazio reale, la scenografia invece si pone l’obiettivo di definire uno spazio illusorio. Lo spazio scenografico è infatti sia spazio reale in quanto luogo dove fisicamente gli attori possono recitare, sia rappresentazione dello spazio dove si svolgono gli eventi della narrazione. Di tale spazio rappresentato la scenografia ne riproduce i sensi dando forma concreta ai contenuti che si vogliono comunicare con la me
[1] “Progetto dell’interno architettonico” è la nuova terminologia con la quale si è inteso denominare quei corsi prima chiamati “architettura degli interni”. Tale puntualizzazione lessicale nasce dalla considerazione che “architettura degli interni” lascia supporre che esista, in parallelo, una architettura degli esterni dimenticando che l’architettura, come definizione, non può essere separata dal suo interno, senza il quale essa non può sussistere.
[2] Cfr. P. Giardiello, Lo spazio della decorazione, tesi di dottorato, Napoli, 1995
[3] Cfr. A. Bossi, Recuperare l’interno, sette tesi di laurea, Napoli, 2002
[4] Cfr. A. Bossi, op. cit.
[5] Cfr. C. Fiorillo, Skenographia, note di estetica sull’architettura della scena, Napoli, 1996